Norvegia: fonte di minerali per l’Europa e fautrice del deep-sea mining

, di Trad. di Stefania Ledda

Norvegia: fonte di minerali per l'Europa e fautrice del deep-sea mining
Fonte: REE Minerals AS https://www.sintef.no/en/latest-news/2023/rare-earth-elements-from-fensfeltet-in-norway-are-taken-out-in-europe/ Carotaggi di minerali estratti dal Complesso di Fensfeltet.

Le più recenti tensioni geopolitiche e il crescente interesse per la sostenibilità ambientale sembrano non avere nulla in comune. Eppure, ogni giorno le risorse naturali e minerarie influenzano relazioni commerciali e partenariati di intere nazioni, così come il loro pessimo trattamento può provocare disagi ambientali. Questo mese la Norvegia è diventata apripista della caccia alle terre rare, capaci di poter rimediare alla scarsità di risorse energetiche dell’Europa, nonostante a gennaio il governo abbia scelto di procedere al deep-sea mining (o esplorazione mineraria oceanica), che fa storcere il naso ad ambientalisti e membri dell’Unione Europea.

Come è ormai noto, l’Unione si è trovata in grande difficoltà in seguito allo scoppio della guerra tra la Russia e l’Ucraina, sia politicamente che produttivamente. Infatti, circa l’80% dei depositi di carbone ucraini si trovano nelle regioni occupate dalle forze russe. Secondo il think tank ucraino GMK Center, le esportazioni di minerali grezzi sono crollate del 60% tra il 2021 e il 2022, equivalenti a circa 2,8 milioni di euro, considerando che il valore totale dei depositi occupati dalla Russia nel 2022 ammontava a 12 trilioni di dollari. Di conseguenza, la scarsa produzione sia di metallo (calata di 2,5 milioni di tonnellate nel 2023 rispetto al 2021) quanto di litio si è fatta sentire nei settori della tecnologia e delle batterie per auto. Quindi, l’Unione Europea continua a stringere rapporti commerciali con Paesi da cui sa di poter trarre un vantaggio produttivo sia a livello di importazione che di esportazione. Da una parte, l’Europa è alla ricerca di giacimenti sul suolo europeo - rimanendo comunque fedele a un progetto di sostenibilità che ricicli le materie prime -, dall’altra, cerca di farsi strada tra vari concorrenti che non siano la Cina.

L’ambiente reclama e i conflitti determinano un aumento del costo delle nostre bollette: che cosa sta facendo la diplomazia internazionale di fronte a tutto ciò?

In un comunicato stampa del 26 aprile del Critical Energy Transition Mineral Panel delle Nazioni Unite, l’organizzazione invita governi e attori del variegato settore minerario alla collaborazione per mirare all’adozione di standard qualitativi efficienti, garantire la salvaguardia ambientale e realizzare una transizione energetica pulita. Viene dichiarato che il possesso di risorse minerali e di terre rare porta sicuramente con sé grandi benefici: investimenti, diversificazione dell’economia, aumento dell’occupazione, rispetto dei diritti umani e del pianeta, ma solo se gestite in maniera adeguata. La creazione di questo comitato è avvenuta in seguito all’identificazione di un vuoto normativo per ciò che concerne le terre rare e le materie prime critiche - utilizzate nei processi di transizione energetica e soprattutto nelle tecnologie digitali. Insomma,per contrastare gli effetti del cambiamento climatico e avviarsi verso la transizione verde, bisogna armarsi di rame, litio, nichel, cobalto e terre rare, che costituiscono gli elementi fondamentali per alimentare le tecnologie dell’energia pulita, dalle pale eoliche ai pannelli solari, dai veicoli elettrici alle batterie. Inoltre, il 2030 è l’anno entro cui è previsto l’aumento di circa tre volte e mezza la domanda di minerali per la transizione energetica.

E l’Unione Europea? Ha un suo comitato, il Pan-European Reserves and Resources Committee (PERC), il quale è responsabile di stilare report inerenti l’estrazione di risorse e la gestione di riserve minerarie scoperte da società presenti nei mercati di tutta Europa. La sua menzione è necessaria anche perché le organizzazioni attualmente partecipanti sono la European Federation of Geologists e la Fennoscandian Association for Metals and Minerals Professionals: la seconda raggruppa esperti in metalli e minerali della penisola scandinava e della Finlandia.

Tuttavia l’Unione Europea è stata previdente organizzandosi e preparandosi attraverso un programma che pone la caccia alle risorse energetiche come attività più frenetica rispetto al passato, benché in un contesto geopolitico ormai frammentato.

Il programma REPowerEU, con cui l’UE vuole porre fine alla sua dipendenza dai combustibili fossili russi risparmiando energia, diversificando gli approvvigionamenti e accelerando la transizione verso l’energia pulita, comprende l’European Critical Raw Materials Act che - proposto nel 2023 e approvato dal Consiglio quest’anno - intende garantire l’approvvigionamento di materie prime critiche, incluse le terre rare, assicurando una fornitura sicura e sostenibile di tali per l’industria europea, rafforzandone le risorse e rendendo sempre meno urgente la necessità di rifornirsi da Paesi terzi. Infatti, il 63% del cobalto usato nel mondo - e utile per la produzione di batterie - viene estratto nella Repubblica Democratica del Congo; il 97% del magnesio utilizzato dall’Unione Europea proviene dalla Cina, così come il 100% delle terre rare utilizzate per uno specifico tipo di magneti viene raffinato dalla Cina; e, infine, il 98% delle risorse europee dei borati arriva dalla Turchia.

Quindi, perché parlare della scoperta del più grande giacimento di terre rare in Norvegia? Forse gli europei non avranno più bisogno di stringere rapporti commerciali fortemente competitivi con Paesi con cui non si sarebbe mai sognati? Si va per gradi.

Le terre rare fanno parte del gruppo di critical raw materials oggetto dell’iniziativa dell’UE, nello specifico si tratta di 15 elementi chimici e materie prime indispensabili per la transizione ecologica ed energetica, utilizzate soprattutto nei veicoli elettrici, pannelli solari e nelle turbine eoliche. Sono appunto dette “rare” perché la concentrazione dei loro giacimenti è talmente scarsa da renderne difficile l’estrazione; la loro presenza sulla crosta terrestre è significativa, ma le loro proprietà intrinseche le rendono delle risorse disperse in tutto il pianeta. Ad esempio, il litio - oggi impiegato nella produzione di batterie e accumulatori elettrici - e il cobalto, utilizzato più che altro nei sistemi di stoccaggio di energia, vengono estratti principalmente in Cina, in Africa e in altre regioni al di fuori dell’Europa e del Nord America. E noi europei? Ad oggi, importiamo la quasi totalità di questi materiali.

Quali sono le previsioni? “Il litio e le terre rare diventeranno presto più importanti del petrolio e del gas naturale. La loro domanda è destinata a quintuplicarsi da qui al 2030”, dichiarava la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in un discorso al Parlamento Europeo. D’altronde, la Norvegia ha già sostituito la Russia per la fornitura di gas e potrebbe assumere un ruolo fondamentale anche per quella di terre rare.

Il 6 giugno la Rare Earths Norway scopre un massiccio giacimento di terre rare - a dir poco ambito dalle grandi potenze di tutto il mondo - a Fensfeltet, nella penisola scandinava.

La REN è una società mineraria privata norvegese, fondata nel 2016 con l’obiettivo specifico di esplorare ed eventualmente sviluppare il prezioso Complesso di Fen (Fensfeltet in norvegese), che si trova a sud del Paese, a due ore dalla capitale Oslo. Fa capo a una holding mineraria e gode del sostegno della European Raw Materials Alliance (Erma). Secondo la società, nel giacimento si trovano 8,8 milioni di tonnellate di questi metalli, ossia in misura notevolmente maggiore rispetto al giacimento di Kiruna, nel nord della Svezia, che conterrebbe tra 1 e 2 milioni di tonnellate e la cui scoperta risale all’inizio di quest’anno (1).

Nonostante le stime siano il risultato di perforazioni effettuate fino a 468 metri sotto il livello del mare - e considerando che sono previste altre analisi per esplorare la possibilità dell’esistenza di ulteriori risorse -, bisogna precisare che tali stime sono ancora preliminari: infatti, sono solamente le prime a quantificare le risorse di Fen con metodi scientifici. L’azienda è però molto ottimista, ipotizzando di poter avviare la prima fase di sviluppo entro il 2030, con un investimento di 10 miliardi di corone, ossia circa 870 milioni di euro. L’investimento iniziale si aggira sui 900 milioni di euro e permetterebbe di coprire il 10% della domanda dell’Europa, in linea con l’obiettivo di autosufficienza per almeno il 10% dei materiali critici, come stabilito dal Critical Raw Materials Act (2). L’obiettivo è rendere tali risorse parte di una rete di produzione che inizi dal luogo di estrazione fino alla produzione della risorsa ricercata, senza trascurare gli standard di impatto ambientale anche durante l’utilizzo di tecnologie per l’estrazione e la lavorazione dei minerali, la cui messa alla prova è prevista in una fabbrica pilota situata vicino al deposito (3).

È vero che seppur la Norvegia non sia uno Stato membro dell’Unione Europea, rimane un Paese privilegiato poiché appartenente allo Spazio economico europeo e perché comprovato affidabile fornitore di numerose materie prime. Diventa un nuovo attore economico e politico chiave: il giacimento di Fensfeltet rappresenta un’opportunità per l’Unione di affrancarsi dalla dipendenza cinese. Infatti, secondo un rapporto della Commissione Europea del 2022, l’UE è fortemente dipendente dalla Cina per l’accesso a questi materiali, che produce il 93% della produzione di mondiale di magneti di terre rare. Inoltre, la domanda di queste materie prime in Europa è in costante crescita: nel 2019 si attestava a 18mila tonnellate all’anno, ma è appunto previsto che raddoppi a 40mila tonnellate entro il 2030 (4).

La fotografia di una Norvegia prosperosa contrasta però con un’ambiziosa ma dolente nota voluta dal suo governo: nel mese di gennaio è diventato il primo Paese al mondo ad appoggiare la pratica del deep-sea mining, ossia l’estrazione di minerali dal fondale oceanico. Le associazioni ambientaliste, la comunità scientifica, e anche alcuni Paesi dell’UE, si sono dichiarati contrari a una pratica tanto controversa, che comporta la ricerca e l’estrazione di elementi e materiali sicuramente preziosi per la transizione energetica, ma in habitat ancora incontaminati dalla specie umana.

L’interesse delle grandi industrie minerarie per le attività di estrazione nei fondali marini nasce negli anni Sessanta, alimentato dalla speranza di trovare infinite risorse di cobalto, nichel e simili. Nel 1994 viene creata la International Seabed Authority (ISA), ossia l’autorità che ha il compito di monitorare le attività connesse ai minerali presenti nei fondali marini di tutto il mondo. Ad oggi, sono state rilasciate circa 30 licenze esplorative sebbene l’ISA non abbia mai acconsentito allo sfruttamento commerciale, ma potrebbe non essere più così. Tra le aziende che fanno maggiore pressione c’è la The Metals Company, società canadese che negli ultimi anni ha tentato di ottenere il permesso per avviare le attività di estrazione (5).

Per quanto ghiotta possa sembrare questa tecnica, bisogna fare i conti con l’idea che sul pianeta non siamo da soli, e che ciò che si ripercuote sulle specie e fauna animali ha un impatto anche sul genere umano. Infatti, le conseguenze che una tale impresa potrebbe avere sulla flora e fauna marina sono sconosciute. “I rischi ambientali sono enormi – spiega Francesca Vespasiani di Greenpeace International –. Ma anche di fronte alla non conoscenza delle possibili conseguenze, ci sono alcuni governi pronti a dare il via libera. Moltissime specie marine di cui non sappiamo nulla ma che siamo già pronti a sacrificare”. Senza dimenticare che l’ecosistema marino è molto più delicato di quello terrestre: la nostra presenza rischierebbe di danneggiarne la biodiversità a causa dell’inquinamento luminoso e acustico, persino influenzando la vita di specie della cui pesca dipende la sopravvivenza di alcune popolazioni dell’Oceano Pacifico. Supponendo che la Norvegia renda le sue acque un mercato aperto alle società che faranno domanda per la raccolta di questi minerali, il governo si difende dichiarando che in ogni caso le licenze verrebbero rilasciate solamente dopo ulteriori ricerche ambientali. Persino Walter Sognnes, co-fondatore della società estrattiva norvegese Loke Minerals - interessata a una licenza nella zona - ritiene necessario condurre ulteriori studi esplorativi e di mappatura prima di iniziare le attività di estrazione.

L’opposizione a tale pratica era già stata manifestata nel novembre del 2023 da 120 legislatori europei, attraverso una lettera aperta che invitava il governo norvegese a quantificare il reale impatto ambientale di tale impresa sulla biodiversità marina. Si tratta di un appello simile a quello del Norway Institute of Marine Research (IMR), che accusa il proprio Paese di aver semplificato i risultati degli studi condotti - praticamente associando i risultati delle ricerche condotte in una piccola area all’intera zona destinata all’estrazione - e dichiara che l’impatto ambientale andrebbe valutato con ricerche scientifiche lunghe dai cinque ai 10 anni. Non solo. Alla fine di maggio, il WWF ha citato in giudizio il governo norvegese, accusandolo di non essersi prestato sufficientemente alla raccolta di dati relativi all’impatto ambientale che può avere il deep-sea mining. C’è anche chi sostiene che il riciclo e il riutilizzo dei minerali possa contribuire a evitare un possibile disastro, specialmente se si pensa alle migliaia di telefoni cellulari e strumenti digitali acquistati e gettati ogni anno.

La caccia alle fonti energetiche sembra ancor di più contrastare con la fresca approvazione del 18 giugno da parte del Consiglio dell’Unione Europea della Nature Restoration Law, un discusso regolamento per la tutela dell’ambiente in associazione al Green Deal e che mira al ripristino delle condizioni naturali in almeno il 20% della superficie terrestre e marina dei territori dell’Unione entro il 2030, in modo da impedirne lo sfruttamento commerciale. Insomma, la scure del cambiamento climatico sembra non spaventare i grandi colossi industriali, tantomeno il Green Deal, che è ormai diventato un miraggio di ambientalisti ed esperti. La presa di coscienza delle industrie rispetto alla debolezza e all’essenziale presenza degli ecosistemi naturali e all’eventuale scomparsa della biodiversità, con annesse conseguenze per la sopravvivenza della specie umana, sembra ancora lontana.

Parole chiave
Tuoi commenti
moderato a priori

Attenzione, il tuo messaggio sarà pubblicato solo dopo essere stato controllato ed approvato.

Chi sei?

Per mostrare qui il tuo avatar, registralo prima su gravatar.com (gratis e indolore). Non dimenticare di fornire il tuo indirizzo email.

Inserisci qui il tuo commento

Questo campo accetta scorciatoie SPIP {{gras}} {italique} -*liste [texte->url] <quote> <code> ed il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare paragrafi lasciare semplicemente delle righe vuote.

Segui i commenti: RSS 2.0 | Atom