Per una cultura condivisa dei movimenti della società civile

, di Giampiero Bordino

Per una cultura condivisa dei movimenti della società civile

La presenza crescente di movimenti nelle società civili è un dato essenziale del panorama del mondo globalizzato contemporaneo. Organizzazioni non governative (ONG), nuovi movimenti sociali, organizzazioni del volontariato che operano in una sfera “né Stato né mercato”: agiscono in tutto il mondo centinaia di migliaia, milioni di attori collettivi che praticano forme di auto-organizzazione reticolari, non gerarchiche, orizzontali.

Certo, una grande ONG riconosciuta dalle istituzioni, in qualche caso anche accreditata presso le Nazioni Unite, finanziata da enti pubblici e privati, non è la stessa cosa di un movimento sociale non riconosciuto né accreditato né finanziato, che agisce esclusivamente nelle forme della militanza e del volontariato. Ma esistono pur sempre, tuttavia, alcune caratteristiche comuni fra le diverse tipologie di movimenti.

Si tratta, in generale, di soggetti che non trovano origine o fondamento nella sovranità statale, che non si riconoscono o si riconoscono solo in qualche misura nelle forme tradizionali di mediazione sociale, che portano avanti campagne di mobilitazione su singole issues (pace, ambiente, diritti umani, istruzione, salute ecc.) in una prospettiva quasi sempre transnazionale.

Per dirla in metafora, i movimenti, nel mondo globale in cui viviamo, si configurano come grandi “galassie” di attori sociali, che sono in grado di sviluppare azioni collettive in qualche caso di grande visibilità e rilevanza (si pensi ai Fridays For Future). Che fanno rete fra loro. Che si ispirano a valori ed esprimono valori. Che alimentano e producono “opinione pubblica”. Che propongono e praticano nuovi modelli di comportamento, ad esempio nella logica del “dono” invece che in quella dominante dello “scambio”. Che fanno politica, seppure a loro modo. Che in qualche modo contribuiscono anche, intenzionalmente o meno, ai processi di governance locali e globali.

Questi attori operano nei nuovi “spazi pubblici” post-statali e post-nazionali che si sono sviluppati soprattutto con il processo di globalizzazione. In qualche caso non riconoscono legittimità ad altri “spazi” (quelli statuali, istituzionali) o comunque sono loro indifferenti; in altri casi confliggono e negoziano con essi; in altri ancora (le ONG in particolare) manifestano maggiore interesse e vicinanza a questi “spazi”, dai quali ricevono riconoscimenti e legittimazione.

Come si vede, la realtà dei movimenti si caratterizza per la molteplicità delle tipologie dei soggetti che la costituiscono, e per la sua complessità. Si caratterizza anche per la diffusione e l’importanza della sua presenza, per il ruolo che - soprattutto in alcuni momenti di “emersione” (ad esempio quelli in precedenza richiamati) - sembra poter esercitare nelle società civili e negli Stati.

Ma, nel contempo, altri segni distintivi della realtà dei movimenti sembrano anche essere l’intermittenza della loro visibilità e del loro ruolo, la precarietà delle loro strutture organizzative, e soprattutto la scarsa capacità di far valere insieme, e non solo separatamente, i propri valori e le proprie ragioni. Che cosa hanno, in comune, i movimenti? Quale cultura condivisa, eventualmente, li unisce? Quali progettualità comuni sono in grado di sviluppare e di tradurre in proposte per una nuova “polis” più giusta e più umana?

A queste domande non si possono dare risposte univoche e sicure. Un punto chiaro è però che i movimenti non sembrano in grado di parlare “con una voce sola”, neppure sui temi fondamentali e nei momenti più decisivi della vita pubblica. Tante voci, cacofonia di suoni, rumore: una potenzialità di ruolo, per cambiare il mondo, che non è quindi adeguatamente sviluppata.

Questa difficoltà a “parlare con una voce sola”, a dare vita a qualche forma di soggettività comune e condivisa, mi sembra abbia due fondamentali tipi di ragioni.

La prima, la più evidente e intuitiva, è legata al fatto che i movimenti hanno generalmente, come si è detto in precedenza, specifiche issues di riferimento, specifici obiettivi e ambiti di impegno, dai quali non è facile uscire per allargare lo sguardo ad altri obiettivi ed ambiti di impegno.

La seconda ragione, su cui vale la pena soffermarsi, è legata alla carenza di sensibilità e di cultura istituzionale che spesso caratterizza i movimenti, e che sottrae ad essi il possibile contenuto di una soggettività comune e, quindi, di una possibile “sola voce”. Nei movimenti, come si può rilevare empiricamente, molti tendono a sottovalutare il significato e il ruolo delle istituzioni nella vita umana e, nel contempo, a sopravalutare (forse per un eccesso di ottimismo antropologico) la possibilità di determinare il mutamento dei comportamenti essenzialmente attraverso la persuasione e la testimonianza.

Le istituzioni, in quanto sistemi codificati di regolazione dei comportamenti umani, sono invece, come diceva Kant, lo strumento essenziale per tentare di raddrizzare “il legno storto” di cui è fatto l’uomo. Non bastano la persuasione e la testimonianza, se mancano le istituzioni, cioè le strutture di lungo periodo destinate a permanere oltre il ciclo breve delle singole vite umane. Certamente occorre che le istituzioni siano coerenti con i valori ma, fatta salva questa coerenza, resta la necessità della loro presenza per rendere concretamente possibile la realizzazione dei valori.

La cultura federalista, in questo senso, ha un significato esemplare: la pace, che è il valore di riferimento del federalismo, non è garantita dalla “buona volontà” dei singoli, che pure è essenziale, ma dalla presenza di istituzioni predisposte a questo fine. Più in generale, l’impegno per i valori, se non vuole rischiare di essere generosamente ingenuo e insieme impotente, deve dunque incorporare una progettualità istituzionale destinata a garantirne nel tempo la realizzazione.

Su cosa, quindi, la molteplicità dei movimenti, la “galassia” dei movimenti, potrebbe tentare di parlare al mondo “con una voce sola”, oltre le differenze delle singole issues di ciascuna? Quale cultura condivisa potrebbe tenere insieme e alimentare i movimenti, per convincere davvero, con i fatti, che “un altro mondo è possibile”?

Credo esattamente proprio ciò che oggi ai movimenti più manca: la progettualità istituzionale, la proposta di sistemi codificati di regolazione dei comportamenti umani coerenti e funzionali alla realizzazione dei valori. Senza di ciò, le potenzialità straordinarie di milioni di attori sociali in tutto il mondo, il grande patrimonio di militanza e volontariato che i movimenti rappresentano, rischiano di essere dispersi e perdenti. I movimenti proclamano al mondo che “un altro mondo è possibile”, ma non contribuiscono adeguatamente a progettare e a costruire le sue concrete (cioè istituzionali) condizioni di realizzabilità.

Mi sembra evidente, a questo punto, quale grande terreno possibile di dialogo e di impegno comune si apra in questa prospettiva al federalismo e alla “galassia” dei movimenti. L’incontro fra i valori e le pratiche sociali dei movimenti e la cultura istituzionale del federalismo può far conseguire a ciascuno uno straordinario “valore aggiunto” in termini di influenza sociale e di peso politico. In questa direzione, è necessario che da un lato i movimenti si rendano disponibili al discorso istituzionale e alla ricerca di progettualità condivise e, d’altro lato, che il federalismo e i movimenti che lo rappresentano si aprano ad una riflessione comune sul senso e sui contenuti dei “foedera” (i patti) e delle istituzioni federali ai loro diversi possibili livelli, dal locale al globale. L’incontro, in questo caso, può essere salutare e decisivo per entrambi, e soprattutto per il conseguimento effettivo di quell’ “altro mondo possibile” che tutti noi speriamo e vogliamo si realizzi.

Ci possiamo chiedere fin d’ora, per concludere, quali possano essere in concreto alcuni temi fondamentali del discorso istituzionale da sviluppare insieme. Ne propongo tre, solo come prima occasione di riflessione e senza alcuna pretesa di esaustività e sistematicità. Sono tre temi su cui la tradizione politico-culturale federalista ha certamente molto da dire, ma anche molto nuovo lavoro di ricerca e riflessione da fare.

Il primo è quello del carattere “multilivello” e “multiattore” della democrazia nell’epoca della globalizzazione. I diversi livelli, necessari e in misura rilevante da costruire, dei processi partecipativi e decisionali, dei “patti” da condividere: locale, nazionale, continentale, globale. I diversi attori di questi processi, territoriali e funzionali, statuali e non statuali: città, regioni, stati, unioni di stati, organizzazioni internazionali, autonomie funzionali, associazioni e soggetti della società civile ecc. Come è evidente, nell’epoca della globalizzazione la centralità esclusiva della statualità nazionale sovrana è in declino, erosa dal basso (le autonomie territoriali e funzionali), dall’alto (gli enti internazionali, i processi di integrazione sovranazionali) e “attraverso” (le reti e i flussi transnazionali che attraversano i territori e li sottraggono al controllo della statualità sovrana).

Il secondo tema è quello del necessario - inevitabile nell’epoca della globalizzazione a meno che non si desiderino “pulizie etniche” (e religiose, culturali, sociali ecc.) incrociate, secondo la regola tragica e suicida ma ampiamente praticata in tutto il mondo del “fare agli altri quello che è stato fatto a te” - pluralismo delle identità, delle appartenenze e delle cittadinanze. Quali regole e istituzioni per un modello di società in cui ciascuno è tendenzialmente sempre più “uno e molti”, per una società sempre più diasporica e meticcia, e in cui ciascuno coltiva una pluralità di appartenenze e di cittadinanze (già oggi per tutti gli europei almeno due, nazionale e comunitaria), ai diversi livelli dal locale al globale?

Il terzo tema, infine, è forse quello più inquietante e controverso (e forse anche rimosso) nell’universo culturale dei movimenti, ma non può essere eluso, se si vuole davvero andare fino al fondo dei problemi. Come garantire, con quali procedure e strumenti, l’effettiva esecutività dei processi decisionali e delle regole, dato che il “legno storto” di cui è fatto l’uomo, almeno per ora (domani chissà, speriamo), non consente di pensare che questa esecutività sia sempre e da tutti spontaneamente garantita? Si può legittimamente pensare ad un mondo che non abbia più bisogno dell’uso della forza come “risorsa di ultima istanza” per far valere, ai diversi livelli dal glocale al globale, le decisioni e le regole, ma in ogni caso occorre dire come vi si arriverà e in che modo nel frattempo (nell’età della transizione) si provvederà a garantire il rispetto delle regole, del diritto e il funzionamento delle istituzioni.

Bisogna infatti essere consapevoli che, di fatto, l’alternativa ad un diritto efficace (non indifeso né impotente) non è un mondo pacifico e felice, ma molto più semplicemente un mondo in cui trionfa l’uso della forza senza alcun diritto, secondo la logica e gli interessi del più forte. Ed è appunto questa, come è noto, la situazione che c’è oggi a livello mondiale, in assenza di regole e istituzioni globali legittimate ed efficaci.

I temi di riflessione possibili per costruire una cultura condivisa dei movimenti, e tentare di conseguire una soggettività comune da far valere per realizzare “un altro mondo possibile”, sono dunque molti e impegnativi. Proprio per questo vale la pena impegnarsi ad esplorarli insieme.

Fonte immagine: Flickr.

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