Parte della rubrica sui diritti linguistici e sulle lingue in Europa

Plurilinguismo e monolinguismo come atti politici

, di Silvia Lai

Plurilinguismo e monolinguismo come atti politici
Individuo in grado di parlare più lingue. Illustrazione di Triton, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/license...> , via Wikimedia Commons

I nuovi simpatizzanti che si avvicinano alle sezioni federaliste spesso si pongono delle domande sulle consuetudini linguistiche della futura Federazione Europea: viene chiesto a militanti più esperti se l’omologazione linguistica non sia un pericolo concreto pronto ad attendere l’unione federale al varco, qualora questa si realizzasse in seguito ai prolungati e quotidiani sforzi di ognuno di noi.

Altri federalisti si interrogano su un problema diametralmente opposto ma per loro non meno preoccupante: la diversità linguistica che contraddistingue l’Europa come realtà culturale e politica, non rappresenta forse un ostacolo alla formazione di un’opinione pubblica europea?

Questi dubbi non sono mere speculazioni accademiche e le rispettive risposte non sono accessorie disquisizioni: riguardano intimamente ciò che ognuno di noi possiede di più caro: la propria identità. Mi ha sempre colpito l’idea di Emil Cioran secondo cui: “non si abita un paese, si abita una lingua”. [1] Il pensatore romeno voleva comunicarci un concetto più sottile di ciò che appare a un primo sguardo: strenuo oppositore del nazionalismo e dell’antisemitismo nazisti, non intendeva banalmente dirci col suo aforisma che la nostra unica vera lingua è quella materna. Piuttosto, egli intendeva comunicarci che gli esseri umani, prima che verso luoghi fisici rientranti nei confini statali, avvertono un senso di appartenenza a delle narrazioni, a dei modi di descrivere, classificare, giudicare l’esistente, ciascuno dei quali veicolato in modo specifico da ogni diversa lingua, da ogni diverso linguaggio. Interessante quanto afferma Ponzio in Marxismo e Filosofia del Linguaggio quando asserisce che:

ciò che caratterizza un prodotto ideologico rispetto ad ogni altro prodotto materiale è il fatto che esso, oltre ad essere parte di una realtà, riflette e rinfrange un’altra realtà esterna ad esso. Tutto ciò che è ideologico possiede significato, cioè rappresenta, sta per qualcosa fuori di esso: è quindi un segno. [2]

Da ciò deriva che ogni ideologia possiede un suo specifico linguaggio che ne rappresenta l’aspetto materiale. Specularmente, ogni linguaggio veicola una particolare ideologia che ne rappresenta l’aspetto ideale. In questo caso, per linguaggi si intende diverse varianti linguistiche parlate all’interno di una comunità, siano essi lingue, dialetti, gerghi.

Stando a quanto scritto finora, ciò che vi è di legato alle lingue, è indissolubilmente connesso a scelte e visioni politiche. Può risultare quindi interessante ripercorrere brevemente il rapporto tra UE e alcune politiche linguistiche, con particolare riferimento a dei provvedimenti specifici e significativi del PE. Per farlo, si ricorrerà alla breve storia del rapporto tra lingue e istituzioni europee così come tracciata da Ó Riagáin: [3]

quando nacque nel 1951 la CECA inizialmente fu previsto che il francese fosse l’unica lingua di lavoro. Le proteste dei belgi fiamminghi non tardarono ad arrivare e di conseguenza furono aggiunte come lingue del nascente organismo sovranazionale il tedesco, l’olandese, l’italiano. Seguirono inglese, danese, greco, spagnolo, portoghese, svedese e finlandese quando l’organismo si allargò. Oggi sappiamo che le lingue ufficiali dell’UE sono 24, tutte quelle ufficiali nei diversi stati membri. In seguito alla Brexit, l’inglese è comunque annoverato in questo elenco in quanto una delle lingue ufficiali di Malta e Irlanda. Il discorso di ogni europarlamentare viene tradotto dalla sua lingua madre a tutte quelle dell’Unione. Inoltre, ogni cittadino ha diritto a rivolgersi a un qualsiasi organo o a una qualsiasi istituzione dell’UE in ciascuna delle 24 lingue ufficiali dell’Unione e ricevere risposta nella stessa lingua (articolo 24, quarto comma, TFUE).

Ma riprendiamo il resoconto storico: molto interessante risulta anche il rapporto tra storia dell’UE e lingue regionali che non sono da considerarsi inferiori a quelle ufficiali statali, diversamente da quanto la retorica nazionalista per secoli ci abbia indotto a credere. Subito dopo le prime elezioni democratiche del PE (1979) una mozione per l’istituzione di una Carta a favore delle minoranze fu portata avanti da parte di Gaetano Arfé, stimato europarlamentare e già professore di storia politica presso l’università di Firenze. La sua iniziativa coinvolgeva parlamentari per lo più appartenenti alla famiglia socialista. Arfé fu a quel tempo incaricato di stilare un rapporto sulle minoranze linguistiche presenti in Europa. Ciò che Arfè riuscì ad ottenere presso il PE fu una risoluzione che chiedeva ai governi nazionali e alle amministrazioni locali di agevolare le lingue regionali e minoritarie attraverso la pubblica istruzione e i mezzi di comunicazione di massa. Secondo questa logica il friulano, il catalano, il ladino e il bretone possedevano stessa dignità di italiano, spagnolo, francese. La convinzione che solo le lingue scelte come ufficiali dagli stati nazionali fossero degne di essere studiate, parlate, oggetto di produzione letteraria era, secondo l’ottica di Arfé, storicamente, linguisticamente, politicamente infondata e, si potrebbe aggiungere in questa sede, appannaggio di un’ottica nazionalista.

La risoluzione di Arfé fu approvata, ne derivò un’associazione di stampo lobbistico chiamata “European Bureau for lesser used languages” (EBLUL), [4] e un altro importante risultato: per la prima volta nel 1982 un piccolo capitolo di bilancio europeo (100.000 ECU) venne interamente dedicato alla tutela delle “lingue meno usate”. Sempre secondo quanto riportato da Ó Riagáin il progetto nel suo complesso trovò il fervido supporto politico e finanziario del governo irlandese, il quale in un’occasione arrivò a minacciare di bloccare l’intero bilancio europeo se il fondo per le minoranze linguistiche fosse stato decurtato. Sempre secondo il resoconto di Ó Riagáin, EBLUL ebbe un ruolo informale anche nella fase di formazione del gruppo di lavoro che avrebbe portato alla stesura della Carta Europea delle lingue Regionali e Minoritarie. Tale carta non rientra fra i trattati dell’Unione Europea, ma è stata varata attraverso il Consiglio d’Europa. Assume quindi la forma giuridica di un trattato aperto a tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e non solo (vi si annoverano anche Svizzera e Armenia). Secondo quanto deciso dalla Carta, che alcuni Paesi come la Francia hanno deciso di approvare ma non ratificare, gli Stati aderenti avrebbero dovuto avere degli obblighi ben precisi, quali ad esempio: garantire l’insegnamento delle lingue regionali o minoritarie nelle scuole di ogni ordine e grado, oltre che l’utilizzo all’occorrenza di tali idiomi nelle pubbliche amministrazioni e presso gli organi giudiziari. Addirittura, vi si specifica che l’accusato/a ha diritto a difendersi nella propria lingua minoritaria senza dover pagare alcun interprete, si tratti di lingua basca, bretone o friulana. Tuttavia, un forte limite alla Carta delle lingue regionali e meno usate, oltre al fatto che, come detto, non è ratificata da tutti gli stati, è il seguente: spetta a ciascuno stato nazionale stabilire quali idiomi siano da riconoscere come lingue regionali. Inutile precisare che la scelta avviene per motivi spesso propagandistici, svincolati da reali fondamenta linguistiche: secondo questa logica, il friulano è riconosciuto in Italia come lingua, ma non il veneto, nonostante quest’ultima fosse la forma espressiva prediletta da un autore come Goldoni, il quale appartiene al canone letterario italiano.

Da quanto fin qui illustrato è evidente che Unione Europea e Consiglio d’Europa prevedano e abbiano previsto la diversità non come opzione, ma come loro elemento fondante. A questo punto è da chiedersi perché un organismo sovranazionale come l’UE contempli il plurilinguismo come risorsa, mentre le varie forme di nazionalismo lo considerano come un ostacolo: nell’Italia fascista erano proibite le manifestazioni dialettali a livello scolastico, mentre bretone, catalano, basco e gaelico per tutto il XX secolo sono stati fortemente scoraggiati dagli stati nazionali entro cui si trovavano le rispettive comunità di parlanti.

Una possibile risposta è rinvenibile a mio avviso nella critica di Ponzio al pensiero di Bachtin, quest’ultimo non a caso uno dei più grandi politologi e linguisti europei, osteggiato dal nazionalismo sovietico di Stalin. Ecco come riassume il pensiero di Bachtin lo studioso Ponzio:

La mitizzazione, assolutizzazione della lingua dominante, della sua visione del mondo è legata all’assolutizzazione della ideologia dominante, a un atteggiamento di conservazione, di piena adesione alla tradizione. [5]

Semplicemente, il nazionalismo si basa sulla mitizzazione culturale, costruita a tavolino, secondo la quale i componenti di una comunità nazionale dovrebbero essere tutti uguali. L’omogeneità culturale rientra nella triste, irrealistica e artificiosa distopia cui lo sciovinismo tende.

Piuttosto, una comunità autentica è formata da persone che adoperano linguaggi diversi, perché ogni lingua rappresenta un’istanza politica e sociale che il suo parlante porta avanti: il dialetto rappresenterà la cultura e le esigenze regionali, il gergo popolare dei minatori veicolerà la loro appartenenza di classe, l’italiano orale, diverso da quello scritto, verrà utilizzato in circostanze informali dove magari si esprimono visioni politicamente scorrette e anticonformiste, diverse da quelle che emergerebbero dalla lingua nazionale ufficiale piatta e standard, utilizzata nelle reti pubbliche durante il TG delle 20.00.

Gli unici linguaggi ammessi dalla narrazione nazionalista sono quelli della lingua standard nazionale, privi di coloriture dialettali e gergali, in altre parole, prive di rivendicazioni altre, alternative, prive di quelle voci che potrebbero essere definite, in alcuni casi, perfino marginali, subalterne, secondo un’ottica gramsciana. L’unica lingua ammessa dal nazionalismo è una lingua svilente, assolutizzante, escludente.

Bachtin analizza i diversi linguaggi impiegati in Delitto e castigo nella sua opera più famosa Dostoevskij, Poetica e stilistica, dove ne analizza i risvolti e significati sociali. In questa occasione le diverse lingue e i diversi linguaggi vengono definiti come i rappresentanti delle distinte visioni del mondo che si alternavano, sovrapponevano, scontravano, in una Russia alessandrina di fine Ottocento in preda al cambiamento, al rinnovamento sociale.

Come sottolinea l’intellettuale russo in riferimento a Dostoevskij, non solo cittadini diversi adoperano lingue diverse, ma diverse lingue, quindi diverse anime, albergano all’interno di ogni persona, sia essa vera o frutto della finzione letteraria, poiché ognuno di noi possiede un’identità plurima. In ciò risiedono i concetti di dialogismo e polifonia. [6]

Nel mio caso particolare ad esempio, il sardo esprime la mia appartenenza regionale e lo sento intimamente legato a una parte del mio carattere di matrice popolare, quella degli ambienti dove sono cresciuta. L’italiano è invece legato alla parte più razionale della mia persona, quella dipendente dal mio percorso scolastico e accademico. Alcune frasi in bolognese invece determinano la categoria generazionale dello -studente fuori sede- cui sono legate determinate narrazioni politiche che ho assorbito nella città dove ho frequentato degli ambienti universitari progressisti. Quanto all’inglese e al francese, mi proiettano verso il mondo, segnano la mia appartenenza all’Europa. Sono certa che ogni cittadino o cittadina europeo ed europea possa fare discorsi simili a questo. Ecco spiegato perché l’Europa e il progetto federale per cui è nata salvaguardano le lingue dalla falce del monolinguismo nazionalista: garantire la pluralità delle lingue è garantire la pluralità del pensiero. La diversità non è solo tra le persone ma all’interno delle persone. Non di una, ma di infinite identità si caratterizza ogni cittadino europeo, che deve poter parlare tante più lingue quanto più sfaccettati sono la sua personalità e il suo vissuto.

Note

[1“Confessioni e anatemi”, 1987.

[2Lo si trova nell’introduzione di Augusto Ponzio all’opera di cui qui di seguito si fornisce indicazione bibliografica: V. N. Vološinov, Marxismo e filosofia del linguaggio, Bari, Dedalo Libri, 1976, p. 6, opera tradotta da Nicola Cuscito dall’edizione inglese (Seminar Press, New York and London 1973).

[3Cfr. Ó Riagáin D: Many Tongues but One Voice: a Personal Overview of the Role of the European Bureau for Lesser Used Languages in Promoting Europe’s Regional and Minority Languages, in O’Reilly C. (a cura di), Language, ethnicity and the State. Volume 1: Minority languages in the European Union, Palgrave, Basingstoke and New York, 2001

[4Nel 2011 lo European Bureau for lesser used languages è stato sostituito dallo European Language Equality Network (ELEN), che rappresenta i 50 milioni di cittadini europei che non si riconoscono solo e semplicemente nelle lingue ufficiali nazionali.

[5A. Ponzio, Michail Bachtin, Alle origini della semiotica sovietica, Bari, Dedalo Libri 1980, p.105.

[6Cfr. M.Bachtin, Dostoevskij, Poetica e stilistica, traduttore G. Garritano,Torino, Einaudi, 2002.

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