Pro Vita e ingerenze politiche: università a rischio

, di Camilla Scaglione

Pro Vita e ingerenze politiche: università a rischio

In un rimpallo tra polemiche e mozioni, l’Università italiana si trova messa a rischio nella libertà di espressione dei suoi ricercatori. Galoppando verso una sempre più nera censura, dove finirà il diritto allo studio libero dei cervelli italiani?

Alla fine del settembre appena passato, l’onlus Pro Vita & Famiglia, capeggiata da Antonio Brandi, ha attaccato senza mezzi termini la libertà di insegnamento, nonché le più basilari libertà di parola ed espressione, nell’ambito della pubblica istruzione e della ricerca universitaria.

In particolare, Brandi e affiliati si sono scagliati contro l’Ateneo di Roma Tre, il terzo polo universitario della capitale italiana, per la presenza nel piano didattico del “Laboratorio per bambin* trans e gender creative”. L’associazione ha visto tale spazio didattico come una violazione della naturalità dello sviluppo infantile e adolescenziale, volto, in via potenziale, al traviamento in nuce dei più giovani e indifesi. La polemica ha avuto luogo nella forma di una lettera aperta di Pro Vita indirizzata al Rettore di Roma Tre, Massimiliano Fiorucci, e in un appello accorato alla Ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, esponente di Forza Italia. Si noti, inoltre, come anche a livello parlamentare altri esponenti dell’area politica di Bernini, come Gasparri, Rampelli, Mennonite e Sasso si siano espressi come apertamente contrari all’avanzare di un progetto accademico che collegasse teorie queer con teorie pedagogiche. Il problema è sempre il pregiudizioso timore che le menti dei coinvolti, che sarebbero stati bambin* e ragazz* dai cinque ai quattordici anni, vengano deviate e infettate dalla narrativa prosopopeica LGBTQIA+. La paura di Pro Vita è che una presunta natura dell’infanzia, che se lasciata a sé stante crescerebbe nell’ortodossia ed eterosessualità, verrebbe invece influenzata negativamente dalle teorie queer e portata a sviluppare tendenze, per l’appunto, contronatura, che altrimenti mai si sarebbero mostrate nelle giovani menti degli innocenti.

Alla stessa stregua, o comunque sullo stesso filone argomentativo, si staglia la critica sempre della succitata onlus contro un’altra università e un altro personaggio, identificabili rispettivamente nell’Università di Sassari e nel professor Federico Zappino. Zappino sarebbe qui colpevole di diffondere tra i suoi studenti - sempre visti come facilmente manipolabili - le cosiddette teorie gender e queer. Per teoria gender o ideologia gender, di per sé sostantivo negativo, coniato nell’ultima decade del secolo scorso, si intendono gli studi di genere, che, secondo gli utenti del termine, vorrebbero portare avanti una propaganda volta alla vanificazione delle differenze biologiche tra i due sessi e, in tal modo, alla dissoluzione del nucleo tradizionale di famiglia. Zappino è quindi imputato di propinare un’eterodossia che nega il binarismo di genere, sostiene l’uguaglianza tra i sessi e distingue tra genere e sesso biologico. Questa visione viene criticata come un tentativo di introdurre e diffondere nel contesto sociale qualcosa di innaturale e, di conseguenza, perverso.

La critica al professore si concentra anche, e forse soprattutto, sui testi da lui proposti agli studenti. Tra gli autori in questione figurano importanti esponenti dei diritti LGBTQIA+ e del femminismo, come l’americana Judith Butler e l’italiano Mario Mieli. Quest’ultimo, figura pionieristica per la scena queer sia in Italia che all’estero, è autore di testi provocatori e controcorrente, tra cui Elementi di critica omosessuale, in cui critica l’eterosessualità capitalistica e bigotta del secolo scorso. Zappino, così come gli autori che analizza, è accusato di corrompere la società e minare la famiglia tradizionale e «naturale», promuovendo una liberalizzazione dei generi.

Il problema che Brandi e fratelli pongono è l’innaturalità di tutto ciò che si annovera sotto il termine a ombrello queer. Ma ecco che qui si palesano due controversie a cui non si possono voltare semplicemente le spalle: in primo luogo, che cos’è il naturale e, quindi, quali sono i diritti leciti; in secondo luogo, l’ingerenza politica nell’ambito dell’istruzione.

Per quanto riguarda la prima questione, si tratta di un interrogativo monumentale su cui si sono confrontati e continuano a confrontarsi le menti più raffinate dell’antropologia. In Contro Natura. Una lettera al Papa, Francesco Remotti, antropologo, per l’appunto, si esprime contro un’enciclica del Papa emerito Benedetto XVI riguardo ciò che deve essere considerato normale nella società e famiglia umana, sottolineando l’eurocentrismo del pensiero di Ratzinger. In breve, Remotti sostiene che quanto viene considerato, per l’appunto, contro-natura sia perfettamente normale in altri contesti sociali, dove per altri si intende non-occidentali, o, ancora più in piccolo, non-europei. Il pensiero queer (volutamente non si sta usando la notazione di ideologia o teoria per il significato negativo di cui detto sopra) non è in alcun modo innaturale. L’essenza queer non è qualcosa da aborrire, è semplicemente un’alterità che si accosta alle altre, sue compagne e non sue nemiche, per partito preso tra l’altro. L’operato di Zappino all’Università di Sassari, pertanto, non solo non è deplorevole, ma risulta essenziale. Così come è giustificata l’esistenza del laboratorio di Roma Tre: perché è fondamentale sondare scientificamente e accademicamente l’ontologia queer dalle sue radici, quindi dall’infanzia di quell* bambin* che si identificano già in età prepuberale o adolescenziale come LGBTQIA+. Questa comunità deve avere gli stessi diritti, la stessa visibilità e la stessa attenzione sociale di cui godono le comunità eterosessuali. Di conseguenza, va prestata attenzione allo studio della salute psichica dei preadolescenti queer, che non devono essere visti come «traviati» da un’ideologia, ma come persone ontologicamente queer, al pari di come si rispettano e studiano il benessere mentale degli adolescenti non queer.

L’altro punto all’ordine del giorno è l’ingerenza statale e politica all’interno della realtà accademica italiana. Il solo fatto dell’esistenza degli interventi in aula dei Parlamentari precedentemente menzionati è sintomo di un problema. Così come lo è l’eventuale intervento della Ministra Bernini a riguardo. Questa situazione rivela un’Italia politicamente aggressiva nel contesto della ricerca accademica e scientifica, e preoccupa che non sia un caso isolato. Esistono diversi esempi di questo fenomeno, come la presenza di Eni all’interno dell’Università Statale di Milano, dove enti pubblici e privati esercitano pressioni, sfruttando o censurando il lavoro dei ricercatori.

Se già desta preoccupazione l’ingresso di istituzioni private nelle università, l’intervento diretto di enti pubblici, soprattutto quando si parla di censura, risulta allarmante. Uno dei momenti più brutali per la ricerca accademica italiana è stato certamente durante il Ventennio fascista, quando furono imposti veti alla libertà di studio e alla circolazione delle informazioni attraverso azioni formalmente legittime, perché non in violazione della Costituzione. Tuttavia, non dobbiamo farci ingannare dalla presunta «non incostituzionalità» di queste azioni: oggi, come allora, limitare la libertà di espressione è non solo avvilente, ma profondamente preoccupante.

Si vuole forse procedere verso l’istituzionalizzazione coatta del mondo accademico italiano, privando i suoi pensatori delle libertà che un sistema democratico dovrebbe garantire? Difficile dirlo, ma difficile anche non notare la mano guantata di nero che lo Stato sta tentando di abbassare su questa realtà, nata come palestra di pensiero e ora forse più simile a una prigione orwelliana, dove l’occhio del Grande Fratello controlla tutto. Tutto ciò avviene nel 2024, quarant’anni esatti dopo la previsione distopica di Orwell in 1984.

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