Quale Europa: il modello europeo nella storia contemporanea

Recensione del libro di Dario Velo edito da Cacucci

, di Angelo Ariemma

Quale Europa: il modello europeo nella storia contemporanea

Il focus dell’interessante libro di Dario Velo è incentrato nella visione del modello socio-economico europeo come assoluta novità, non ancora compresa, rispetto ai modelli più studiati ed elaborati nella storia degli ultimi 200 anni. In fondo, quando negli anni Ottanta del XX secolo, si parlava di una “terza via” tra capitalismo e comunismo, non avevamo compreso che questa terza via l’avevamo sotto gli occhi, in fieri, nell’economia sociale di mercato – come la definisce Velo - fondata sul principio della sussidiarietà, che l’Europa portava avanti e che ha rappresentato, e ancora potrebbe rappresentare, un esempio per le altre realtà continentali nel mondo.

La prima forte distinzione che Velo propone è tra liberismo del mercato privo di regole, come si è affermato dall’epoca Reagan-Thatcher, e il liberalismo di stampo einaudiano che ha sempre visto nello Stato l’elemento regolatore del mercato a beneficio di tutti i cittadini. Nella prospettiva di questo liberalismo rinnovato l’Europa ha affermato tre principi fondamentali: il cittadino al centro della società e della politica; una tendenza al federalismo basato sulla sussidiarietà e sulla solidarietà; “l’affermazione di un nuovo rapporto Stato-mercato, pubblico-privato, per il governo dell’economia” (p. 14). Nella prospettiva europea “l’economia sociale di mercato è rafforzata, nella sua capacità interpretativa e nella sua valenza di forma di Governo, dalla teoria costituzionale che ne costituisce parte inscindibile. Si comprende perché la reazione liberista all’affermazione dell’economia sociale di mercato sia il tentativo di dare risposte anche a problematiche costituzionali, negando la dimensione costituzionale a problematiche che la posseggono, per riportare l’analisi a una dimensione unicamente economica” (p. 21).

Proprio questa è la battaglia che si combatte da 30 anni, sempre più aspra, in vista delle elezioni europee del 2019. Allora tanto più risulta fondamentale questo contributo di riflessione, e il monito che Dario Velo ci propone: “Il passato ci ha lasciato in eredità la concezione delle rivoluzioni come momenti di violenza costruttiva, premessa necessaria a un nuovo ordine. Oggi l’esperienza europea dimostra che è possibile costruire gradualmente una nuova forma di Stato con la guida di valori, per la crescita della libertà integrale dell’uomo all’interno di istituzioni che tutelino il nuovo ordine.* Un concetto di rivoluzione come momento consapevole di costruzione di un nuovo ordine, guidato dai valori rispettoso del presente che va valorizzato ricercando in esso i semi del futuro” (p. 27).

Velo non dimentica la Storia, il percorso che negli USA, prima con Theodor Roosevelt poi con il nipote Franklin Delano Roosevelt e il New Deal, ha portato lo Stato federale a essere più presente nell’economia e nella regolamentazione del mercato; poi invece il neo-liberismo degli anni ’80 ha riportato l’economia nell’esclusivo ambito del mercato, anzi ha imposto anche alle istituzioni pubbliche quella filosofia manageriale che guarda solo ai risultati costi/benefici, senza alcun rispetto per la dimensione etica delle scelte. La contraddizione esplode con l’affermarsi della globalizzazione dei mercati e il conseguente allargamento della forbice tra Stati ricchi e Stati poveri – come pure tra ricchi e poveri all’interno di uno stesso Stato – e il sostanziale depauperamento dei piccoli Stati che pretendono di arroccarsi in un vecchio, superato nazionalismo e sovranismo, laddove l’unica sovranità ancora possibile risiede nella federazione di Stati continentali, capaci di affermare regole al mercato globale.

Quando le considerazioni di Velo entrano nel merito dell’Unione europea si fanno ancor più interessanti; intanto perché pone la nascita dell’integrazione europea “nel rifiuto di un ordine liberista, senza Governo” (p. 38), e nella costruzione di “un modello di statualità innovativo” (p. 44); infatti dietro l’apparente centralità economica del processo di integrazione “il problema centrale di ogni avanzamento del processo di unificazione è sempre stato di natura costituzionale. L’Unione Europea ha costruito gradualmente un proprio modello di statualità” (p. 41). In questo quadro si pone la sfida tra il modello liberista inglese e il modello liberale che Monnet porta avanti con la cooperazione rafforzata tra Stati più pronti all’integrazione. Nella visione di Velo perfino lo statuto della BCE e della moneta unica rivelano la natura innovativa del modello europeo basato sulla sussidiarietà, poiché l’autonomia della BCE e la sua struttura già federale hanno sottratto al ‘principe’ “la moneta come strumento di politica congiunturale” (p. 60), dandole quella stabilità che ne fa la seconda moneta mondiale.

Certo il fatto che ancora non si sia posta mano, come pure previsto dal Trattato di Maastricht, all’unificazione economica e fiscale ha posto le basi della crisi di credibilità nel progetto europeo, dimenticando tuttavia che dal Trattato di Lisbona è prevalsa la governance intergovernativa, gestita cioè dagli Stati nazionali e dai loro accordi di compromesso, contro il government delle istituzioni europee (Parlamento e Commissione).

L’ottimismo di Velo, pur consapevole delle difficoltà che ha incontrato e continuerà a incontrare il federalismo fiscale necessario a un nuovo avanzamento dell’integrazione europea, ci riporta a un’idea di progresso e di avanzamento storico dove “il federalismo e il principio di sussidiarietà possono radicarsi solo in una società avanzata, che ha già vissuto e fatto proprie le rivoluzioni liberale, socialista e democratica” (p. 63), dove “il governo dell’economia, in uno Stato federale, è un problema costituzionale prima che economico” (p. 68), proprio perché sussidiarietà e solidarietà devono manifestarsi sia tra gli Stati e Regioni della federazione sia all’interno di essi per la difesa della dignità di ogni cittadino.

Tuttavia, tale è la lucidità dell’autore che ben vede come la storia degli ultimi 30 anni non è stata semplicemente caratterizzata dal mantra liberista “poco Stato e niente regole”, ma anche da una politica miope, espressione di “una crisi culturale che è stata alimentata dalle teorie post-moderne: alla visione di obiettivi di lungo periodo, in grado di far avanzare un progetto di portata storica, si è difesa la portata degli interessi particolari. In termini più generali, alla fiducia sulla possibilità di contribuire allo sviluppo di un mondo sempre migliore, si è sostituita la paura del cambiamento” (p. 73): l’unica prospettiva di vincere le prossime elezioni è di interpretare i vincoli di bilancio del Trattato di Maastricht come i mezzi per ridefinire una politica economica basata sul principio di sussidiarietà, così da garantire una sempre maggior integrazione di tipo federale.

La disamina di Velo dell’economia sociale di mercato ne va a chiarire anche i prodromi pratici (le Presidenze Roosevelt e il New Deal) e teorici, modellati da alcuni economisti e giuristi di area tedesca nei primi trenta anni del Novecento.** Autori come Eucken, Mueller-Armack, Roepke, Rathenau***vogliono ridefinire il rapporto pubblico-privato, Stato-mercato, “ove il mercato conserva il valore della libertà e ove lo Stato è chiamato a tutelare tale libertà, intervenendo di fronte ai fallimenti del mercato, affermando la solidarietà e i diritti fondamentali dei cittadini” (p. 99), “accomunati dalla consapevolezza che l’agire umano si realizza in un contesto storico che spetta alla cultura interpretare” (p. 103), quindi “realizzare uno Stato cha pone al centro l’individuo (…) [e] qualificare l’economia sociale di mercato come un nuovo umanesimo” (p. 104). È l’ordine nuovo del modello europeo che “si fonda su valori che implementa con efficacia storicamente mai sperimentata prima” (p. 100), modulando progressivamente, secondo le esigenze storiche che di volta in volta si presentano, quel rapporto pubblico-privato, Stato-mercato, non più di opposizione, bensì di complemento, per affermare un ordine etico, prima che un ordine giuridico e un ordine economico.

La conclusione di Dario Velo sfiora la visione filosofica (quella stessa visione che, modestamente, anche noi cerchiamo di affermare). In primis una chiara critica del pensiero post-moderno, come è venuto affermandosi: assoluto relativismo e disinteresse per il concetto di verità****; una società senza regole, dove l’anarchia viene scambiata per libertà, senza istituzioni, dove “la violenza del più forte può essere presentata come forma radicale di libertà” (p. 113); “in questo modo, l’uomo post-moderno vaga in solitudine, smarrito in un mondo senza punti fermi di riferimento, che egli stesso contribuisce a rendere disordinato negando il ruolo delle istituzioni. La razionalità non può essere guida, sostituita dalle emozioni e dagli orientamenti estemporanei. I sondaggi di opinione diventano lo strumento per cogliere i mutevoli orientamenti di uomini privi di una cultura con radici in grado di garantire un orientamento stabile” (p. 114).

La pars construens ci riporta all’Europa: “il modello europeo si è affermato, in questo processo dialettico, come l’alternativa più coerente alla post-modernità e alla statualità liberista, definendo gradualmente una nuova statualità in grado di affermare un ordine solidale socio-economico fondato sui valori” (p. 114). Mentre la globalizzazione si è affermata come mercato senza regole, l’Unione europea cerca di porvi un freno (pensiamo alla regolamentazione del roaming, alle politiche climatiche ed energetiche, agli scontri con i grandi colossi che hanno monopolizzato gli spazi del web), e basa il suo ‘governo’ sul principio di sussidiarietà e “un ordine costituzionale entro cui possano svilupparsi libertà e solidarietà. Un nuovo umanesimo può storicizzarsi all’interno di un rapporto ineludibile fra ogni singolo individuo e la comunità di riferimento, in un quadro costituzionale in grado di garantire i diritti” (p. 116).

La conclusione, apodittica e preveggente, non fa che confermare l’impasse nella quale siamo precipitati agli albori del XXI secolo, volendo continuare a pensare con categorie ottocentesche – nazione, liberismo, comunismo – invece di continuare a percorrere quel nuovo ordine che i padri e le madri dell’integrazione europea ci hanno indicato: “Il modello europeo non può essere compreso con le categorie interpretative tradizionali, che si sono formate in un mondo dominato dagli Stati nazionali, dalle ideologie, dalle guerre e dalla ragion di stato. Il modello europeo ha aperto una nuova fase della storia, in cui ogni individuo può sentirsi cittadino, con un rapporto rinnovato con una nuova statualità” (p. 118). Alea iacta est: dobbiamo continuare a perseguire questo modello, a incrementarlo verso una struttura di governo pienamente federale, se non vogliamo ritrovarci di nuovo a spararci contro tra europei – figli di una stessa cultura – a unico beneficio degli altri Stati continentali.

Dario Velo, Quale Europa: il modello europeo nella storia contemporanea, Bari, Cacucci, 2018, 123 p.

*Forse non è un caso che la rivista di Alexandr Marc, Denis de Rougemont, e del pensiero personalista si chiamasse “L’Ordre Nouveau”.

**Il fatto che si tratti di personalità poco conosciute ci fa riflettere anche sul fatto che nella nostra cultura di massa, mentre si continua a proporre il pensiero di un Marcuse o di un Adorno, restano di fatto per lo più sconosciuti pensatori più predittivi e più validi a leggere la contemporaneità, quali Hanna Arendt e Walter Benjamin: si pensi solo a quanto quest’ultimo dice sui passages parigini nel suo studio incompiuto su Baudelaire: vi vediamo già prefigurati gli attuali centri commerciali e la loro ‘filosofia’.

***Non dimentichiamolo, ucciso nel 1936 dai nazisti!

****Anche il filosofo Maurizio Ferraris ci ha insegnato a vedere nel motto postmoderno ‘valgono solo le interpretazioni’ l’inganno del pensiero debole.

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