Ormai è evidente l’incapacità strutturale degli Stati nazionali europei di rispondere alle esigenze della propria politica interna e alle sfide poste dalla politica internazionale, di garantire cioè la stabilità economica e la sicurezza (civile e sociale) dei propri cittadini in un mondo globalizzato. Da questo contesto si è diffusa una netta crisi di fiducia nella società per delle istituzioni inefficaci; mentre il nostro sistema politico continua ad esser organizzato e pensato unicamente su base nazionale, con un’Unione europea bloccata dai veti incrociati dei singoli governi. Questo cortocircuito ha reso la politica l’arte dell’amministrare l’esistente al ribasso, un’emergenzialismo caratterizzato da una frenetica inattività, perdendo la possibilità di incidere o immaginare il futuro e sbiadendo il senso di una destra o di una sinistra nello schieramento parlamentare perché recluse nei vincoli di un dibattito dai confini ottocenteschi.
Per i cittadini è sempre più difficile capire quali siano le menzogne, fondate sull’illusione ad ancoraggi obsoleti, e quali le cose effettivamente realizzabili con gli strumenti esistenti. È necessario dunque inquadrare il deterioramento della partecipazione, della mancanza di fiducia nella politica e dei suoi contenuti nella più grande crisi delle democrazie nazionali, che non hanno più i mezzi per assicurare una società che sappia, possa e debba scegliere il proprio avvenire. Occorrerebbe guardare a questo punto alla democrazia non solo come un insieme di norme statiche e assolute, ma considerandola un processo e un prodotto storico in continuo divenire. Solo indossando queste lenti possiamo renderci conto di che genere di non-democrazia stanno producendo questi tempi di “interregno” che stiamo vivendo: il dramma di una società in crisi bloccata in un sistema istituzionale che non funziona.
La marcata percezione di sicurezza sta diffondendo un’incertezza dilagante tra le persone che fin troppo abilmente viene indirizzata verso capri espiatori inesistenti. Il migrante è diventato il bersaglio, suo malgrado, di tensioni interne alla società europea già fortemente radicate, auto-avverando la profezia di una folle guerra tra poveri. La crisi economica degli ultimi anni non ha fatto altro che approfondire disparità già presenti: la forbice sociale tra ricchi e poveri si è ampliata sempre di più, mentre migliaia di persone continuano a morire per tentare di raggiungere la nostra parte di mondo privilegiata. Purtroppo gli Stati europei si sono rifiutati di affrontare questa realtà sul piano continentale ed hanno bloccato ogni tentativo della Commissione o del Parlamento europeo di dare una risposta perché gelosi della propria sovranità fittizia e illusoria, condannandosi alla provata inefficacia di politiche intergovernative o appaltando ad organi tecnici aree sempre più vaste della politica svuotandole di significato (vedi sul piano delle riforme istituzionali, della sicurezza sociale, della gestione dei flussi migratori o del rilancio dello sviluppo).
Per dirla con Cuisenier, la via d’uscita potrebbe essere il riprendere l’esempio degli antichi greci, i quali, «insegnano che l’etnicità di un popolo, ciò che gli consente di avere un’identità di popolo, non risiede né nella lingua né nel territorio né nella religione né in questa o quella peculiarità, ma nel progetto e nelle attività che conferiscono un senso alla lingua, al possesso di un territorio, alla pratica di usanze e riti religiosi». È ciò che facciamo che determina ciò che siamo, è la scelta di essere una comunità di destino che ci permette di agire come tale. Questa comunità può essere immaginata almeno a livello europeo ed è possibile determinarne dei passaggi essenziali non più rimandabili per consolidarla. Oggi non basta più la mera opposizione al revanscismo nazionalista, la folle difesa di uno status quo europeista divenuto una prigione per le speranze dei cittadini, ma diventa sempre più urgente invece un cambiamento istituzionale e costituzionale dell’Unione europea. In sintesi, non è più sufficiente la mera negazione e decostruzione delle idee illusorie del nazionalismo o del cosiddetto “populismo/sovranismo”, ma è necessaria una campagna di contenuto istituzionale e politico, una battaglia di civiltà sul piano continentale che restituisca ai cittadini la speranza di appartenere a un progetto che non guardi più alle scadenze elettorali ma al futuro delle prossime generazioni. Con l’approssimarsi delle elezioni europee, si può svelare questa coscienza sopita del popolo europeo e rimettere in moto il processo democratico: in questa direzione vanno sia il manifesto del UEF che le 10 priorità indicate dal Movimento Europeo.
Da un lato, è necessario lo sforzo di tutte le forze politiche (a prescindere dal proprio schieramento) per costruire un’egemonia sul piano del dibattito pubblico, elevando il livello dell’analisi e degli obiettivi sul piano continentale, lasciando in un angolo chi si ostina a rimanere schiavo del “nazionalismo metodologico”; ma dall’altro, occorre definire un chiaro progetto di costruzione di politiche e di istituzioni in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini. Crediamo che in questa impasse in cui tutti i governi sono fermi al palo, con l’evidente formarsi di un dibattito e di una prima campagna elettorale davvero europea, l’attore essenziale sia proprio il futuro Parlamento. Unico organo democratico in Ue capace di rappresentare in chiave rivoluzionaria gli europei con le loro istanze e provare a realizzare l’idea di Spinelli, superando gli Stati e il Consiglio che fino ad oggi hanno frenato qualsiasi sviluppo democratico dell’Unione. Se è vero che ciò che decidiamo di fare come europei definisce il nostro stesso essere europei e che “l’Europa non cade dal cielo”, spetta a noi cittadini e società civile spingere il Parlamento a costruire una maggioranza al suo interno per adempiere a questo storico compito: realizzare una Costituzione e delle istituzioni che siano all’altezza delle aspettative di noi cittadini, di noi popolo europeo.
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