Se tornassero, per la Festa della Repubblica

, di Cesare Ceccato

Se tornassero, per la Festa della Repubblica
JOYCE LUSSU, Portrait, Transeuropa, Public domain, via Wikimedia Commons

Oggi, 2 giugno, nell’anniversario del più rivoluzionario referendum della storia d’Italia, celebriamo la Festa della Repubblica. I leader politici di allora erano certi del risultato e confidavano che gli italiani ne avrebbero tratto i frutti. Se tornassero oggi, lo confermerebbero?

Il 2 giugno 1946, l’Italia scelse la Repubblica. E sia chiaro, se tra i cittadini pare ci fosse incertezza, tra le “alte sfere” tutti la volevano.

Tutti, a eccezione del Partito Liberale Italiano di Benedetto Croce (nemmeno troppo unito nella propria decisione), sapevano che il futuro dello stivale era lontano da Casa Savoia, era dentro la casa di ogni cittadino. In quello che si può definire un “Governo dei migliori” di quei tempi, guidato dal Segretario della DC Alcide De Gasperi, con a vice il Segretario del PSIUP Pietro Nenni, con Palmiro Togliatti, Segretario del PCI, nel ruolo di Ministro di Grazia e Giustizia e con Ugo La Malfa, leader della neonata Concentrazione Democratica Repubblicana (di cui facevano parte anche Parri e Spinelli), in quello di Ministro del Commercio con l’Estero non si sentiva nemmeno il bisogno di darsi alla campagna elettorale. C’era la fiducia che gli italiani del dopoguerra indirizzassero la propria preferenza verso quella forma di Stato con una sovranità pienamente esercitata dal popolo, e che gli italiani del futuro sapessero sfruttare tale decisione verso un nuovo risorgimento del Bel Paese.

Nel film “Sono tornato”, remake italiano del tedesco “Er ist wieder da”, un Benito Mussolini scaraventato dal mondo ultraterreno all’Italia del ventunesimo secolo si ritrova a fare i conti con i trascorsi della storia e con i cambiamenti della società, parecchio diversa da come l’aveva lasciata. Nella sua avventura, il dittatore ha modo di conoscere l’Italia dei nostri anni e di commentarla secondo le sue lenti. Si sorprende dei sessantaquattro Governi in settantadue anni di Repubblica, si rincuora di trovare chi - non avendo vissuto la dittatura - lo rimpiange o del fatto che una sorta di classificazione discriminatoria ancora esista, seppur nascosta da un sottile velo di false conquiste in tema di diritti civili, e si gode “L’italiano” di Toto Cutugno, brano rappresentativo del Paese nel 1983 ancora attuale quarant’anni dopo, malgrado fatichi a digerire quel “partigiano come Presidente”.

Ecco, immaginate ora i fondatori della Repubblica italiana tornare a Roma nel 2023 dopo un sonno - per chi più, per chi meno - decennale. Se con ogni probabilità non rimarrebbero sorpresi dal vedere che i partiti di cui furono leader, dopo tanti anni di onorata carriera, abbiano chiuso i battenti, certo lo sarebbero dal fatto che la loro Repubblica democratica fondata sul lavoro abbia visto solo 6 italiani su 10 recarsi alle urne per le ultime elezioni politiche. E come spiegare loro questo fatto? Andando a insistere sull’aspetto della campagna elettorale, che da mezzo attraverso cui i partiti prendono in seria considerazione i bisogni dei vari ceti e presentano soluzioni si è trasformata in una gara tra slogan bisillabe come “pronti”, “scegli” e “credo”? O evidenziando come il dibattito, la passione politica e l’autorevolezza dei candidati sia pian piano svanita e con essa la loro credibilità? O ancora, segnalando che dagli anni ‘90 in avanti, tra tangenti, associazioni mafiose, corruzioni, appropriazioni indebite e malversazioni, il Parlamento non sia riuscito a vivere lunghi periodi senza scandali interni, con l’opinione pubblica ormai largamente convinta che “là dentro il più puro abbia la rogna”? Sarebbe certamente difficile, soprattutto tenendo conto che la cosa pubblica è tale affinché tutti gli italiani vi possano partecipare, noi compresi. Non potremmo crederci assolti, anzi, possibilmente verremmo da loro considerati i primi responsabili di tale declino.

A proposito, potrebbero pure interessarsi su chi siano i “nuovi italiani”. La condizione economico-sociale italiana del secondo dopoguerra spinse molti cittadini a emigrare e cercare fortuna oltreoceano. Gli statisti di allora erano consapevoli che sarebbe successo, ma ritenevano che, attraverso una rifondazione dell’assetto scolastico e lavorativo, sarebbe stata l’Italia punto di arrivo negli anni a venire. L’Italia e l’Europa che, soprattutto nell’ottica di De Gasperi, doveva unirsi, collaborare, esaltando le somiglianze e abbattendo le differenze.

Oggi possiamo dire che il pronostico si sia avverato a metà. L’Unione europea è diventata un punto di riferimento per lo sviluppo educativo e lavorativo di tanti suoi cittadini, che possono sfruttare la libera circolazione e il programma Erasmus tra le tante opportunità di quella coesione auspicata già negli anni ‘50. Attraverso l’accordo di Schengen, poi, tali occasioni possono essere ambite anche da chi vive al di fuori del territorio comunitario, un risultato eccezionale di una visione lungimirante.

Tuttavia, guardando all’Italia, non si può dire lo stesso. Ancora terra di emigrazione, con importanti differenze geografiche, generazionali e di ceto che impediscono un pieno sviluppo del cittadino, il nostro Paese, per innumerevoli cause, non è stato in grado di diventare ciò che i primi repubblicani si aspettavano. Se sono messi in difficoltà i figli, nipoti, bisnipoti, eccetera di cittadini italiani, si trovano in una situazione ancora più spinosa coloro che l’Italia l’hanno raggiunta per disperazione. L’acquisizione della cittadinanza italiana, con i diritti che ne conseguono, può essere concessa solo a chi risieda in Italia da almeno dieci anni e abbia un reddito sufficiente al sostentamento, e pure in questo caso - anche per colpa di una propaganda retrograda ancorata alla paura del diverso, ancora esistente a ottant’anni dalla caduta del fascismo - risulta difficile far comprendere come non vi siano poi più differenze tra un cittadino e l’altro. Lo spiega il rapper Slava, un ucraino dall’accento bresciano, che ha dovuto aspettare diciotto anni dal suo arrivo in Italia perché potesse essere considerato italiano “come la pizza fatta dal kebabbaro”. Chissà come lo percepirebbero i padri fondatori e le madri fondatrici della Repubblica.

La Repubblica fu acclamata e la Costituzione fu scritta perché, fatta l’Italia e fatti gli italiani, vi fossero dei punti saldi attorno a cui costruire una società pacifica, coesa e ambiziosa. Perché quindi - potrebbero obiettare i leader di allora se tornassero - celebrare la Festa della Repubblica? Nell’Italia di oggi non sembra esserci fiducia, non sembra esserci attenzione al futuro, non sembra esserci interesse nei problemi nazionali e nei possibili rimedi, potrebbero aggiungere. E qui, dove la situazione sembra drammatica, gli italiani e le italiane del 2023 dissentirebbero.

Il nostro Paese vive sulle montagne russe, ma - per quanto ogni tanto si arrivi al punto di dichiarare il contrario - nessuno l’ha mai dato per perduto. Dalla più alta carica dello Stato al più svantaggiato dei cittadini, gli sforzi per un’Italia migliore ci sono, seppur nascosti in piena vista. E la parata, le frecce tricolore, come una medaglia d’oro azzurra alle olimpiadi o quello 0,1% di PIL in più annunciato al telegiornale, non fanno altro che aumentarli, talvolta inconsapevolmente.

Il ricordo di ciò che fu fatto liberandosi del fascismo e salutando la corona è ancora vivido nella mente di ogni italiano che mostri anche solo un minimo di saggezza. E per questo, alle “alte sfere” e ai cittadini del 1946 va un poderoso grazie. Se ci sentissero così, lo capirebbero: non ci saranno più rivoluzioni come quelle di allora, ma per un bel futuro, più o meno lontano, scommetterebbero ancora - senza bisogno di campagna elettorale - sugli italiani.

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