“La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano.”
Così si apre la Dichiarazione Schuman, una delle pietre miliari del processo d’integrazione europeo. Il 9 maggio 1950 l’allora Ministro degli Esteri francese Robert Schuman rilasciò un documento in cui proponeva la creazione di un’istituzione unitaria che avrebbe assicurato la gestione comune della produzione del carbone e dell’acciaio, ponendo le basi ideologiche per l’istituzione della CECA- la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.
Benché apparentemente basata su premesse economiche, legate alla produzione, tale dichiarazione ha invece uno respiro ben più ampio: la messa in comune di risorse è infatti il gesto concreto che simboleggia un’ideale basato su valori di pace, solidarietà, libertà e giustizia. Conscio delle resistenze degli stati e delle difficoltà di superare gli schemi nazionalisti, Schuman ipotizzò un percorso graduale ma inesorabile: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Benché realizzabile a piccoli passi, il progetto di Schuman era ambizioso e rivoluzionario. Questa idea di Europa rompeva le tradizionali logiche nazionali dove l’identità degli stati era creata sulla base di contrapposizione tra noi e loro, dove i confini erano disegnati col filo spinato e retti dalle membra dei soldati caduti in nome di quello che non è niente di meno che un costrutto sociale. Logiche nazionali, queste, che avevano portato il continente a combattere due estenuanti guerre fratricide. Ma la dichiarazione non aveva solo la finalità di riconciliare un mondo dilaniato dal conflitto e dall’odio verso l’altro e a costruire una pace temporanea in attesa della prossima scintilla. Schuman la pace la voleva perpetua. Infatti, la dichiarazione guardava molto più lontano: si proponeva la costruzione di un’istituzione intermedia le cui decisioni sarebbero state vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi avrebbero aderito. Questa cessione della sovranità statale a un organismo unitario avrebbe costituito il "primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace”. Era la prima volta che un personaggio politico propugnava così intensamente la strada verso l’Europa federale, sul percorso già tracciato dal Manifesto di Ventotene da Colorni, Rossi e Spinelli nel 1941.
La Dichiarazione di Schuman ebbe un impatto così potente che dal 1985 il 9 maggio è diventato la Festa d’Europa, a ricordo dell’incredibile contributo del Ministro francese al sogno europeo.
Quest’anno ricorre il settantesimo anniversario dalla dichiarazione. Sebbene questa ricorrenza sia già importante in quanto memento degli ormai sette decenni già trascorsi da quei primi passi verso la Federazione Europea, il 9 maggio 2020 acquista un significato più intenso. Infatti, la Festa d’Europa di quest’anno coincide con il mitigarsi delle dure misure restrittive messe in atto dalla maggior parte dei Paesi Europei nella lotta alla pandemia del nuovo coronavirus, l’ormai ben troppo noto Covid-19.
Il continente si è trovato stavolta a fronteggiare una battaglia contro un nemico intangibilema non per questo meno temibile. L’Europa che si raccoglie oggi in ricordo delle parole di Schuman è un’Europa esausta, disillusa e frustrata dall’impotenza dell’ingegno umano di fronte alle sfide della natura. Eppure, proprio per questo è ancora più importante parlare di Europa federale e parlarne adesso. Nonostante guerre e pandemie non siano fenomeni assimilabili -né nella loro sostanza né nelle risposte date dai governanti-, senza dubbio il 9 maggio del 2020 ha molte più somiglianze con quello del 1950 che qualsiasi altro anniversario degli ultimi settant’anni: se il continente di Schuman usciva travagliato da una sanguinosa guerra, la nostra Europa soffre il trauma dell’isolamento e della malattia. Il senso di straniamento, di paura del passato e di dubbio per il futuro si assomigliano molto perché, nonostante quello che sosteneva Tolstoj, la sofferenza ha una matrice unica: chiunque abbia subito un dolore può riconoscersi nel dolore degli altri e provare compassione, anche se i racconti sono diversi. Proprio in questo senso di empatia sta la base della solidarietà e da questo sentimento bisogna ripartire.
Dalle crisi nascono le opportunità: il Covid-19, oltre a distruggere vite e affrangere gli animi, ha anche messo a nudo l’impossibilità di far fronte alle sfide globali curando soltanto gli interessi egoistici dello stato nazione. Come possiamo ancora basare le nostre politiche e le nostre azioni sul motto “Prima la nazione” quando il mondo è irreversibilmente interconnesso? Come si possono proteggere le barriere della nazione quando il virus non ha conosciuto confini? Come possiamo badare al nostro orticello quando gli effetti delle scelte compiute al sicuro dei nostri meccanismi nazionali hanno poi effetti che influenzano i nostri vicini prossimi e non?
Ma il problema non è solo lo stato-nazione. Il Covid-19 ha anche evidenziato o le mancanze dell’Europa intergovernativa e ha messo l’accento sulla necessità di misure comuni. Da soli siamo perduti, come una nave in balia della tempesta.
Questo clima di tensione costante, però, ha anche l’effetto opposto di spingere le persone ad abbandonare lo spirito cosmopolita e a trincerarsi ancora di più all’interno del proprio piccolo orticello dove tutto è familiare, conosciuto e, in un certo senso, più semplice. L’espansione verso l’ignoto spaventa i singoli individui così come i governi. E proprio durante i periodi di depressione e di difficoltà si sviluppano dubbio e di sospetto. Sentimenti, questi, di cui i sovranisti e populisti si nutrono: trasformano la paura e l’incertezza, naturali reazioni a eventi di così grande impatto, in odio e diffidenza. Si ripropone la stessa dinamica del noi contro loro, si cercano capri espiatori per evitare di affrontare il compito più gravoso, ovvero raccogliere i cocci e ricostruire la società. Che siano i migranti, l’Europa delle banche, i laboratori di Wuhan o le compagnie farmaceutiche non importa, quello che interessa ai vari potenziali democratici illiberali è dare una soluzione immediate ma miopi che a lungo termine creano ancora più danni.
Tra le nuove sfide che il continente si trova ad affrontare, c’è anche quella climatica. Durante la pandemia siamo stati costretti a vivere più lentamente e a decrescere l’impatto ambientale, chiudendo le fabbriche, fermando i trasporti pubblici, delocalizzando gli uffici direttamente nei salotti di casa. Se tutto questo ha avuto ripercussioni negative dal punto di vista della crescita e della povertà, ha anche portato alla luce, ancora una volta, che il nostro modello di sviluppo economico (e sociale) non è sostenibile. Abbiamo visto tutti le foto dei delfini a Venezia, abbiamo sentito di nuovo gli uccellini cantare, abbiamo visto con i nostri occhi i tramonti senza tracce di inquinamento, abbiamo percepito più respirabile l’aria delle metropoli da sotto le nostre mascherine. È ovvio che questa completa paralisi del sistema non sia una soluzione possibile nel lungo periodo ma questi mesi di pausa dovrebbero farci capire che indietro non si può tornare. È necessario trovare un nuovo modello di sviluppo che sia veramente sostenibile. Il Regno Unito, che avrebbe dovuto ospitare la COP26 a Novembre (adesso rimandata a data da destinarsi), ha dichiarato al Petersberg Climate Dialogue che sia dovere di governi responsabili realizzare “ climate-resilient economies post-Covid-19”. Anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres propugna l’attenzione al clima nel suo piano di ripresa in sei punti, sottolineando anche come questa sia un’incredibile opportunità per poter fare finalmente la cosa giusta. Alla sfida climatica, l’Europa è chiamata a rispondere. Le materie ambientali sono per loro stessa natura transnazionali: le nubi di smog si spostano al di sopra dei confini umani, la plastica non si disintegra magicamente se galleggia fino alle acque internazionali, l’inquinamento delle falde acquifere non conosce dogane e il riscaldamento globale soffoca tutti gli stati. È necessaria una strategia comune per combattere il cambiamento climatico e riportare l’uomo e la natura a una cooperazione più armoniosae rispettosa. Uno stato da solo può essere anche il più virtuoso ma se il resto del mondo non collabora finirà anch’esso devastato da catastrofi naturali. L’Europa intergovernativa non può far fronte a una battaglia simile perché sarà sempre asservita agli egoismi dei governi nazionali per i quali è più importante il consenso del breve periodo che le impopolari ma lungimiranti prese di posizione. Nel 1950 Schuman non poteva certo prevedere questo scenario nei dettagli ma sicuramente aveva ben presente la natura umana che nel dilemma del prigioniero rifiuta di collaborare finendo sempre per scegliere il pay off peggiore. L’unione e la cooperazione, infatti, sono la soluzione ai problemi che ancora non sappiamo nemmeno immaginare.
Per questo motivo, ci troviamo di fronte a un bivio, ora più che mai: o tornare al Medioevo degli stati nazionali, condannandoci all’estinzione per le guerre economiche e le catastrofi climatiche, o andare avanti nel processo di integrazione e costruire un’Europa federale e sostenibile, sfruttando quest’onda di solidarietà e di unione che ci ha permesso di sopravvivere durante questa quarantena. E che magari ci permetterà di sopravvivere anche ai prossimi settant’anni e oltre.
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