Con l’inizio del 2022 entriamo in un altro anno segnato dalla pandemia di Covid-19, ma che, per fortuna, vedrà anche il proseguimento della campagna vaccinale in tutto il mondo. Nei paesi più ricchi, avidi di vaccini, questa procede relativamente bene nonostante le resistenze paradossali dei No-vax. Al contempo, si tenta di prevenire lo sviluppo delle nuove varianti del virus in quelle parti del mondo in cui la campagna vaccinale è ancora indietro e che purtroppo coincidono con le aree meno sviluppate del pianeta. In questo senso, possiamo già vedere come, anche per il 2022, assisteremo ad un cane che si morde la coda.
L’OMS spera di arrivare al 70% di vaccinati entro la metà del 2022 (Sole24ore) e, in effetti, in alcuni paesi europei si è già arrivati al 90% di persone con almeno una dose di vaccino (Portogallo). È anche vero però che le percentuali, più o meno incoraggianti, vogliono dire poco se non sono contestualizzate e, più si va a fondo, più si incrociano i dati, più si rivela l’immagine di un mondo colpito dalla pandemia che è diviso in due tra paesi ricchi e paesi meno sviluppati.
Ad essere piena di contrasti non è solo la semplice diffusione geografica della campagna vaccinale, ma anche la distribuzione dei vari vaccini e l’andamento del prezzo di questi nelle diverse aree del mondo. Al di là della retorica sulle big pharma, possiamo osservare come in alcune aree del mondo siano distribuiti solo vaccini asiatici (Sinovac, Sinopharm etc.) o quello russo (Spuntnik) e che per gli stessi vaccini “occidentali” (Pfizer, Moderna e AstraZeneca) il prezzo più alto lo paghino i cittadini statunitensi.
I dati della campagna vaccinale nel mondo raccontano tutti i paradossi del mondo globalizzato ma senza un governo della globalizzazione: sempre più collegato, ma non per questo più equo e in cui gli Stati nazionali, anche davanti a un nemico che non fa nessuna distinzione, tendono a trincerarsi nei loro confini, nel nazionalismo competitivo, e nel loro potere di acquisto dei vaccini.
Se come diceva Kant (Per la pace perpetua) arriveremo ad un momento in cui “la violazione del diritto in un punto della Terra sarà avvertita in tutti i punti”, la situazione attuale è più complessa. In un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, in cui la paura per la propria salute è legittima, vige la regola dell’ognuno per sé e del si salvi chi può, e si avvertono sì tutte le violazioni del diritto e le ingiustizie, ma non per questo ci si sente in dovere di agire per fermarle, accumulando vaccini due o tre volte sopra il bisogno, o rifiutandoli alla maniera No-vax.
Forse è vero che siamo anestetizzati davanti alle crisi, ma non potrebbe essere altrimenti quando si è vissuto in pieno il decennio delle crisi, quella economica con la povertà e le disuguaglianze che ha causato, quella umanitaria dei migranti che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero, quella ambientale di cui ancora non conosciamo gli effetti più catastrofici e quella pandemica che ormai occupa ogni nostro pensiero e ogni nostra azione sia come individui che come collettività.
Davanti a crisi globali servono soluzioni globali, o meglio comuni. Tuttavia, a livello mondiale, allo stato attuale delle cose, tra Stati nazionali, Istituzioni internazionali, superpotenze o Stati continentali, non esistono strumenti adatti per affrontare le sfide del mondo globalizzato, nonostante la narrazione machista-nazionalista e le metafore belliche che ci hanno fatto compagnia durante i lockdown. Tali soluzioni globali possono essere portate avanti solo da Istituzioni di tipo federale che, allo stesso tempo, dovrebbero implementarle in maniera coordinata sui livelli inferiori secondo il principio di sussidiarietà. Gli obiettivi di un’integrazione mondiale per governare la globalizzazione devono essere chiari: orientare lo sviluppo in modo coeso e le dinamiche internazionali in direzione più pacifica, rendere i processi politici più democratici e meno intergovernativi, creare una società più sostenibile ecologicamente e socialmente.
È emblematico quanto scoraggiante come nell’Unione europea, l’area più integrata del pianeta, dove attraverso una cessione di sovranità si è arrivati ad avere gli standard più alti di qualità della vita, la via per prendere decisioni tempestive ed efficaci per rispondere alle crisi sistemiche dell’ultimo decennio sia ancora ostruita dal macigno del voto all’unanimità. Fuori dall’Unione europea, invece, sempre più regioni del mondo seguono l’esempio dell’acquis communautaire, come il Mercosur e l’Unione africana, consapevoli che solo con una cessione di sovranità si potrà far fronte alle sfide attuali e andare avanti verso modelli di sviluppo più coeso.
In questo scenario, tra stallo e cessioni di sovranità, l’ONU rimane l’unica organizzazione internazionale che possa fare da garante della pace (in senso più o meno kantiano), ma continua ad attraversare una profonda crisi di legittimità e urge una riforma del Consiglio di sicurezza (abolizione del diritto di veto e l’allargamento alle organizzazioni internazionali come l’UE) e dell’Assemblea.
Se ogni crisi rappresenta un’opportunità, bisogna anche ammettere la possibilità che non arriverà tanto la grande crisi teorizzata finora, ma più crisi sistemiche, non per forza ad andamento regolare (come per quella climatica, ad esempio), che ci offrono opportunità diverse e più strade percorribili.
Di conseguenza, non si può “slegare” il processo di unificazione europea da quello del governo della globalizzazione. Per quanto lontana possa sembrare l’idea della federazione mondiale - forse per la natura stessa di questa espressione - il progetto di integrazione a livello mondiale al fine di governare le sfide della globalizzazione può apparire invece ben più chiaro attraverso una riflessione sul concetto stesso di crisi in riferimento a quelle attuali e su quelli di sicurezza, pace e guerra. A conferma di ciò, basterebbe guardare alle piccole cellule, se vogliamo di pre-integrazione, come la global digital tax o la creazione di una comunità mondiale per il clima.
Infatti, tra tutte, la battaglia per il clima è quella più urgente e, proprio per la natura di questa crisi, non si può aspettare che questa diventi una grande crisi, perché ciò potrebbe implicare la fine del genere umano sul pianeta, o risvolti talmente drammatici per il pianeta che ancora non possiamo immaginare. La battaglia per il clima, tuttavia, ha anche mostrato un segnale incoraggiante su una di quelle cellule menzionate prima. Nei giovani che si sono mobilitati in tutto il mondo per la tutela del clima e nei movimenti che ne sono derivati possiamo vedere una cellula di popolo mondiale che dovrebbe far ripensare l’assetto mondiale per il futuro delle comunità umane. Si tratta di cittadini che si vedono come un popolo globale responsabile per la tutela del pianeta e, forse ancora di più, in virtù di aver passato gran parte del 2020 nella propria cameretta, rendendo queste crisi caratteristiche della loro esperienza di vita.
Tutto questo può rappresentare delle opportunità, e forse delle speranze, per un futuro governo della globalizzazione: una strada chiara per le battaglie chiave dei prossimi anni, di cui i cittadini europei in primis potranno farsi portatori. Infatti, la battaglia per l’integrazione a livello europeo non può essere una parallela che non incontra mai quella mondiale, ma vanno portate avanti insieme al fine di non perdere mai di vista l’obiettivo del raggiungimento della pace attraverso l’integrazione politica del genere umano.
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