Interpretiamo il cosiddetto «sofagate» sotto la luce del pensiero federalista

Sofagate: la Commissione europea è il governo dell’Unione

, di Antonio Longo

Sofagate: la Commissione europea è il governo dell'Unione
Fonte: Commissione europea, visita ad Ankara, https://newsroom.consilium.europa.eu/permalink/p117344

Ciò che è avvenuto martedì scorso ad Ankara ha poco a che fare con la Turchia e molto con l’Unione europea”, così ha scritto Sergio Fabbrini (Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2021).

È stato ormai accertato che il sofagate nasce semplicemente dal fatto che il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha voluto, nella circostanza, riservare all’istituzione che rappresenta il ruolo esclusivo di “rappresentante esterno” dell’Unione. Il Trattato di Lisbona riconosce questo ruolo al Consiglio europeo solo “per le materie relative alla politica estera e alla sicurezza comune, fatte salve le attribuzioni dell’alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza” (art.15, punto 6).

Per tutte le materie restanti la rappresentanza esterna dell’Unione spetta invece alla Commissione europea, salvo “altri casi previsti dai Trattati” (art. 17, punto 1). Poiché nell’incontro di Ankara le materie in discussione erano soprattutto comunitarie (unione doganale con la Turchia, visti dei cittadini turchi che entrano in Europa, soldi del bilancio europeo da versare alla Turchia in cambio del mantenimento dei rifugiati siriani sul suo territorio), la posizione dei due rappresentanti dell’UE doveva essere eventualmente rovesciata, con Ursula Von der Leyen come primo interlocutore di Erdoğan oppure, al massimo, equiparata, come nel passato è accaduto negli incontri di Ankara, con Juncker e Tusk posti ai lati di Erdoğan.

Ciò che è accaduto mostra invece che siamo in presenza di una volontà del presidente del Consiglio europeo di contrastare e limitare la forza politica che la Commissione ha acquisito nel corso dell’ultimo anno, a seguito della crisi pandemica, che è deflagrata quando – è bene ricordarlo – la Commissione aveva già lanciato tre mesi prima il Piano d’investimenti denominato “European Green Deal” (11 dicembre 2019), poi rimodulato con il “Recovery Plan for Europe” (27 maggio 2020).

Per l’effetto della doppia crisi pandemica e ambientale, il 2020 ha visto un crescente ruolo della Commissione che ha preso decisioni tipiche di un’azione di governo in campo economico: ha sospeso il Patto di stabilità e di crescita, ha modificato l’intervento sugli aiuti di Stato, ha introdotto la “cassa integrazione europea” (SURE) con le prime emissioni di bond europei, andate letteralmente a ruba. E, soprattutto, ha lanciato il Recovery Plan for Europe, basato su investimenti NextGenEU (750 mld di euro) emessi dalla stessa Commissione e incardinati nel nuovo bilancio rafforzato da future tasse europee. Ha, infine, dato linee-guida molto precide per l’implementazione dei Piani nazionali, sugli obiettivi, sulla procedura e sul loro controllo da parte della stessa Commissione. La valutazione d’implementazione di questi piani nazionali diventerà un atto politico e ciò creerà una nuova dinamica: quello che prima era un rito tecnocratico (il famoso Semestre europeo) diventerà un processo politico.

Si è così superata la logica intergovernativa che ha sempre caratterizzato i precedenti interventi di sostegno agli Stati in caso di shock, ivi compresa quella della proposta franco-tedesca del Recovery fund da 500 miliardi (20 maggio 2020), presentata surrettiziamente una settimana prima di quella della Commissione per far credere che c’era sempre il “motore franco-tedesco”.

Sono stati poi avviati, per la prima volta nella storia dell’Unione, interventi in campo sanitario, dalle mascherine ai vaccini, coordinando e dando linee-guida d’intervento per assicurare una linea comune tra gli Stati, contrastando interventi differenziati che avrebbero favorito quelli più forti e penalizzato i più deboli, frantumando così l’Unione. Si sta, infine, progettando un’Unione europea della salute, con linee-guida per assicurare in futuro un sistema europeo di base capace di affrontare crisi transfrontaliere.

La doppia crisi ambientale e pandemica sta dunque trasformando la Commissione in un attore politico a tutto tondo. Con la crisi pandemica gli stati, anche quelli più forti, hanno toccato con mano che l’Unione poteva essere salvata solo dando più potere alla Commissione, introducendo così quella “capacità fiscale europea” che era sempre stata ostacolata.

La bilancia del potere si è, dunque, spostata a favore della Commissione e del Parlamento.

Il colpo di cannone che è stato sparato con il Recovery Plan è stato fortissimo e, come sempre capita, il rinculo della conservazione nazionale lo è altrettanto. Abbiamo avuto così prima il tentativo (respinto dal Parlamento) di tagliare risorse dal bilancio rinnovato, poi lo scontro tra la Commissione e i Paesi di Visegrad sul legame tra risorse europee e rispetto dello stato di diritto (con il compromesso del dicembre scorso); di recente la Corte costituzionale di Karlsruhe ha bloccato la ratifica del Recovery, mettendo a rischio le ratifiche nazionali.

Occorre vigilare e contrastare la reazione nazionale. I governi temono il potere crescente della Commissione che, con l’emissione di un debito comune sugli investimenti (per settembre 2021?) e le risorse finanziarie di cui potrà disporre mostrerà di essere il reale “governo dell’Europa”.

Se hai risorse finanziarie puoi fare politica, oggi economica, domani anche sulla sicurezza. Se sei credibile, puoi indebitarti sui mercati per ottenere le risorse che ti servono: se puoi farlo oggi, lo puoi fare anche domani (altro che strumento una tantum!).

E, se nel far ciò, sei legittimato dal Parlamento allora sei il “governo democratico dell’Unione”.

È quanto temono molti governi nazionali, che non perdono occasione per attribuire alla Commissione ritardi o inefficienze della politica europea, cercando di frenare la sua azione e quella del Parlamento. L’incidente del “sofagate” ha svelato la protervia del Consiglio Europeo che pretende di essere riconosciuto come il “rappresentante esclusivo” dell’UE. In politica i simboli contano, specialmente in una fase di transizione verso l’affermazione di un pieno governo federale.

Occorre allora che il Parlamento europeo censuri duramente il comportamento del Presidente Charles Michel e chieda una riforma essenziale e semplice da attuare, senza scomodare Convenzioni ad hoc: il Presidente della Commissione deve presiedere anche il Consiglio europeo, ponendo così fine a un conflitto inter-istituzionale e dando così all’Unione un volto e un numero di telefono da chiamare, per dirla alla Kissinger. Non c’è nemmeno bisogno di modificare i Trattati, che non indicano criteri nella scelta del Presidente del Consiglio europeo, specificando solo “che il Presidente del Consiglio europeo non può esercitare un mandato nazionale”.

Dunque, serve solo la volontà politica. Si può fare. I federalisti e i sinceri europeisti potrebbero iniziare una campagna d’opinione in tal senso. A partire dall’imminente “Conferenza per il futuro dell’Europa”.

Antonio Longo

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