Svolta al quarto di secolo

Dove finire in questo 2025? Preoccupazioni per il nuovo anno

, di Davide Emanuele Iannace

Svolta al quarto di secolo

Il 2024 è stato a dir poco peculiare. Potremmo fare diversi conti di quanto è successo fino ad ora in questo anno, che - alcuni diranno, anche finalmente - va concludendosi. Proviamo a fare il punto della situazione, mettendo in evidenza gli aspetti più negativi e quelli più positivi. Forse, questa volta, il piatto della bilancia penderà verso il lato negativo, ma cerchiamo di non lasciarci abbattere troppo proprio a ridosso del 31.

Iniziamo dalle cose principali che vanno succedendo in questo un po’ folle mondo. Per vicinanza, dal conflitto in Ucraina. Due anni, ormai, forse tre, si perde il conto, di prolungato conflitto tra russi e ucraini è diventato un po’ il background dell’esistenza europea e non solo, sfortunatamente. La guerra, perché ricordiamoci che qualcuno ancora la chiama “operazione speciale” – e sarebbe la più lunga operazione speciale vista in giro sul pianeta da un po’ di secoli – continua a demolire sistematicamente l’esistenza ucraina, e anche di quei soldati russi (e nord-coreani) sventurati abbastanza da essere stati spediti al fronte. Il conflitto in Ucraina ha dimostrato una serie di realtà che non avremmo voluto affrontare se non nelle teorie più disparate. La prima è stata una lentezza enorme da parte dell’Unione Europea di assumere posizioni, politiche, ma anche economiche e militari, che fossero in qualche modo decise, decisive. L’Unione non è riuscita a uscire da questi anni di conflitto rinforzata, ma piuttosto, si è riscoperta tendenzialmente divisa.

Nonostante ci siano dei segnali in qualche modo positivi, che vanno verso l’idea anche di tendere a una difesa europea, c’è da chiedersi se gli investimenti da muovere– si parla di 500 miliardi di procurement della difesa comune, in simbiosi e in continuazione con la PESCO, per mettere in pari le forze europee – saranno sufficienti e soprattutto saranno trovati. La difesa europea non ha solo un problema di risorse, al netto di quanto si afferma di raggiungere il temuto 2% sulla spesa come da accordi NATO. Prima di passare al tema atlantico, chiudiamo il problema “Est” dell’Unione europea.

La Russia è, e rimane, una presenza ingombrante sulla scena dei Paesi del gruppo orientale. Le sue infiltrazioni nei sistemi europei, tramite cyber-warfare e quello che possiamo definire un conflitto a bassa intensità di tipo culturale, ha danneggiato in modo consistente diversi elementi cardine del funzionamento europeo, come la libera stampa, informazione, ma anche nelle sue fondamenta culturali – cosa non meno grave di eventuali dipendenze economiche. La prova dell’Ucraina doveva diventare un motore di unità per l’Europa e i suoi Stati membri. Non lo è stato. Istante geopolitiche nazionali particolarmente divisive hanno però sospinti sui binari diversi l’andamento della politica estera, e anche interna, della precedente Commissione. Sulla nuova, ci sarebbe molto da dire.

L’altro grande giocatore che complica la vita tra i palazzi di Bruxelles è rappresentato dagli Stati Uniti. Gli Stati Uniti di Biden sono stati un Paese che poteva essere prevedibile, controllato, potente come ogni potenza straniera con migliaia di testate atomiche. Ora, si ritorna a quella condizione tra il 2016-2020, di un po’ caos, un po’ finta imprevedibilità, di un establishment che era in maniera ribelle antisistema, nonostante fosse il cuore del “sistema” in sé per sé. Ora c’è un potente Trump, rinforzato dalla crisi interna ed esterna dell’Impero americano. Un potere, quello americano, sempre più avvinghiato con quello economico dei Musk, dei duchi della tecnologia e del progresso – vero o finto che sia. Un potere che si è rinforzato nella crisi interna di un Paese che a volte sembra essersi perso, o forse non si va ancora ritrovando da decenni di brio del potere senza un ostile del livello sovietico. Cosa rimane allora? Un Trump che sembra essere la punta di diamante di un movimento rivoluzionario che vuole sovvertire i principi liberali in nome di un conservatorismo estremo, ossia il Project 2025, che a volte si nasconde dietro pietismi e attacchi al cosiddetto mondo “woke”, mentre tenta di ridisegnare il creato a propria immagine – quella di un controllo del corpo delle donne, del diritto delle persone a muoversi, a vivere, perfino a morire.

L’ascesa del “Project 2025”, del nuovo Trump, si accompagna ai venti tempestosi che stanno colpendo un Medio Oriente sempre più instabile. Israele si è impegnato oramai dal fatidico 7 ottobre 2023 in quello che ha preso la forma di una epurazione sistematica della popolazione palestinese all’interno dei territori palestinesi stessi. Tra le colonie nella zona della Cisgiordania, l’occupazione dei territori del Golan siriano – appena dopo la caduta di Assad e la riapertura di un nuovo angolo di caos nella regione – sennonché lo scontro con il Libano, gli yemeniti e gli iraniani, rendono il panorama del Medio Oriente quello di una regione tragicamente ancora più in conflitto rispetto a un passato non propriamente pacifico. La situazione si prospetta caotica, e giorno dopo giorno non sembrano esserci veri e propri spiragli di contenimento della situazione.

USA, Medio Oriente, Russia, ma anche Cina, Africa, rappresentano una serie di elementi di difficoltà per l’Europa del 2025, da un lato competitor aggressivi, dall’altro un set di elementi potenzialmente favorevoli a futuri sviluppi, in particolare in seno a relazioni Africa-Europa più strutturate. Situazioni di crisi come la Georgia, di cui abbiamo anche parlato qui su Eurobull, aprono a scenari futuri di difficoltà, ma al contempo, di opportunità per la diffusione degli ideali europei e dell’Unione stessa.

Unione Europea che anche ora non se la sta cavando sempre alla grande. Tesa tra i suoi tentativi di innovarsi dinanzi le sfide del futuro e del secondo quarto di XXI secolo, tra Stati che stanno tendendo pericolosamente a estremismi populisti, sostenibilità e politiche verdi che non riescono a lanciarsi in maniera consistente e che riescono a scontentare contemporaneamente i fanatici oltranzisti e anche chi le osteggia di per sé. Al contempo, la stessa Commissione post-elezioni è stata in qualche modo combattuta da sé stessa e dai suoi oppositori, con screzi interni che hanno lasciato i segni sulla sua formazione e sui suoi rapporti con le diverse sfere del potere europeo e nazionale. Lo scenario quindi a cavallo tra il 2024 e il 2025 si può sintetizzare con: caos passato, genocidi, guerre e profondi dubbi sugli scenari futuri.

Non una scena particolarmente rassicurante, né per le Istituzioni che sembrano sempre di più essere in crisi con sé stesse e con i propri cittadini; né per questi ultimi, che per lo più si ritrovano spaesati, spesso prede di decisioni in qualche modo confliggenti con loro stessi. Cittadini americani percettori di “redditi di sussistenza” votano Trump sperando che questi non li cancelli poco dopo aver messo Musk al comando di un dipartimento dedicato al taglio al deficit federale. Sostenitori di politiche verdi riescono a far riaprire centrali a carbone. Citiamo giusto alcuni dei paradossi che stanno popolando la politica e la scena nazionale e internazionale.

Quindi, che fare? Che pensare? Che sperare?

Qui su Eurobull.it siamo sempre stati ingenuamente degli estremi ottimisti. Crediamo in un futuro unitario per l’Europa, in un futuro federale, crediamo che il progresso possa consegnare nelle mani di Istituzioni e cittadini i mezzi necessari ad affrontare sia la grande sfida ambientale presente e futura, che quella naturalmente economica legate alle grandi disparità che ormai imperano spietate. Disparità che esasperano i problemi già esistenti che pesano tremendamente sulla cittadinanza e sugli individui e, alla fine di tutto, continuano a rendere alla popolazione sempre più insopportabile le retoriche dietriste e inconsistenti di gran parte della politica. Rendiamo chiaro il concetto: le persone sono banalmente stanche di dispute sul sesso degli angeli, e sono più interessate a ciò che va succedendo ai loro portafogli. E dobbiamo essere onesti di nuovo, il motivo per cui un Trump vince le elezioni è che parla al portafoglio, e anche al cuore culturale, del suo elettorato. Pragmatismo che non vuol dire anti-ideologia. C’è una precisa idea di mondo dietro il “Project 2025” di Donald Trump, dietro le idee politiche di una Giorgia Meloni, o dell’AfD tedesco, così come di Le Pen. C’è una precisa idea di mondo che si propaga, in maniera non sempre composta, non sempre ben costruita, ma che fa presa e che è percepita come tale, anche laddove l’altro lato non riesce a riconoscerla né a identificarla.

E quindi dove ci andiamo trovando? Che per il 2025 la prima cosa da chiederci è: vogliamo una Federazione Europea? Se sì, perché? Soprattutto, per che cosa? Qual è il suo scopo? Non basta più dire che la Federazione Europea serve semplicemente perché serve. Il fine in sé stesso non convince nessuno, se non gli idealisti. Questo è il motivo per cui ci serve immaginare in qualche modo capire cosa ci aspettiamo dal futuro realmente. Per prima cosa, nel 2025 ci servirà comprendere cosa vogliamo che la Federazione sia, e cosa rappresenti.

Possiamo immaginare i cardini di questa Federazione nelle Carte fondamentali dell’Unione già esistente, nei suoi forti valori sociali, culturali, nei suoi ideali. Resta da capire come traslarli, soprattutto come spostarli lentamente dall’ambito della forma a quello della realtà politica-pragmatica. Quello che serve è soprattutto in un certo senso un disegno politico, chiaro e deciso di quello che deve essere il futuro. E in qualche modo la sua pianificazione in maniera precisa. Ma non basta, nemmeno questo.

Come tutti i grandi obiettivi politici, serve anche una mano capace di disegnarne un’idea che possa essere rivolta a chi è prima di tutto avente diritto di sceglierlo questo futuro: i cittadini. Parlare di un’Europa dei valori senza saper spiegare cosa voglia dire, vuol dire parlare al vento. Al contempo, deve rimanere salda l’idea che, proprio perché un concetto altamente valoriale e ideale, esso dovrà andare incontro a dei compromessi con quella che è la vastità degli interessi degli esseri umani che popolano l’Unione europea attuale, con la loro diversità culturale, e al contempo, andare incontro ai percepiti e reali “spiriti di sussistenza e sopravvivenza”.

Non si può lasciare la questione fondamentale di come vivere nel presente, a tutti gli altri. L’Unione europea, se vuole trasformarsi, deve toccare i topic fondamentali della vita del cittadino, e cominciare a lavorare per rispondere a quelle che sono le problematiche presenti dei cittadini. Ora, voi direte, ma perché partire dalla politica estera? Cioè da quei problemi che rientrano nella sfera delle relazioni internazionali?

Perché il poligono ai cui angoli compaiono Cina, Israele e Palestina, Medio Oriente, poi ancora gli Stati Uniti, l’Africa, gli Stati vicini che oscillano tra sentimenti filo-russi e filo-europei, sono delle chiavi di volta che devono spingere all’azione e che, di riflesso, non solo diventano un potente aspetto anche rappresentativo dell’azione unitaria, ma che al contempo permettono di strutturare una serie di azioni tese verso l’interno dell’Unione stessa.

Alcune azioni politiche sono dovute, semplicemente, al senso di umanità. Fermare il massacro palestinese non è un calcolo di geopolitica. È solo un atto dovuto alla memoria dei morti, di questa guerra e di altri massacri, perché questa volta si può fermare. Mediare in Medio Oriente, assistere alle costruzioni di Stati veri e propri, solidi nella loro unicità – non per forza nella struttura statuaria di tipo occidentale, ma stabile – è necessario per rendere un’area chiave pacificata, e in questo senso, andare incontro alle naturali esigenze di sicurezza di ogni cittadino europeo. Al contempo, rallentare la Russia e supportare l’Ucraina vuol dire rafforzare l’idea che l’Unione europea non crede nel mondo delle potenze del XX secolo, dei conflitti da espansione e conquista come in un videogame vecchio stile. Trattare con l’America di Trump e la Cina di Xi non è solo un modo per prendere posizione, è anche un modo per costruire la politica europea, sia industriale che energetica che tecnologica. L’Europa deve arrivare a riscoprire il suo motore economico, innovativo, anche industriale – inteso come produzione, non solo come profitto – di cui ha bisogno se vuole sia completare la transizione, sia non essere un mero parco giochi di altre nazioni.

Avere una politica industriale, avere un’industria, vuol dire possedere autonomia. E un’Europa unita deve essere autonoma, che non vuol dire autarchica come altri uomini avrebbero detto, ma capace di poter giocare il “do ut des” di latina memoria. Lo scambio, essenziale per livellare le relazioni internazionali, l’essere indispensabili per qualcuno per assicurarsi che, quel qualcuno, indispensabile per noi, non possa giocare ogni volta con un poker d’assi in mano e noi con doppia coppia.

Per il 2025 è questo quello che si vorrebbe vedere dall’Unione europea. Non solo tentativi più forti verso una reale unificazione sia politica che, conseguentemente, militare ed economica. Si vuole vedere compattezza sui temi chiave, sulla politica estera, sulla politica industriale. Si vuole vedere una politica industriale, innanzitutto. Perché un’Unione europea senza politica industriale, senza capacità di proiezione futura sui mezzi di produzione futuri, è cieca e zoppa e finirà per morire. Non puntiamo ora contro questo e quel movimento che hanno fatto dell’idea di “Zero progresso” in qualche modo il proprio cavallo di battaglia, ma è una battaglia non tanto contro i mulini a vento, ma proprio contro il senso di costruire il futuro stesso. Speriamo nel 2025 in pragmatismo unito a buon senso, al fine di creare quell’Europa dei valori di cui tanto sentiamo il bisogno.

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