È da anni desiderosa di entrare a far parte dell’Unione europea, ma le sue istituzioni non sembrano intenzionate a muovere un dito, né per risolvere i problemi della scarsa democrazia e delle libertà negate, né per completare i capitoli negoziali necessari a dare concretezza alla propria candidatura. Si parla della Turchia, e della necessità che cambi passo.
Se sono passati sedici anni dal momento in cui hai iniziato i negoziati per entrare nell’Unione europea, non dovrebbero esserci dubbi su dove punti la tua testa, nemmeno se geograficamente sei un Paese che si trova ai confini con l’Asia. Il processo potrà sì essere lungo e complesso, ma il buonsenso dovrebbe vederti fare ogni cosa possibile per garantire libertà e democrazia e rispettare quell’importante requisito imposto dal club a dodici stelle che prende il nome di acquis communautaire. Dovresti impegnarti, dovresti passare dalle parole ai fatti e dovresti farlo in fretta, o meglio, dovrebbero farlo le istituzioni che, volente o nolente, ti rappresentano.
Non servono ulteriori indizi per cogliere il riferimento alla Turchia, il più longevo degli attuali Stati candidati a entrare a far parte dell’Unione europea e il più probabile a rimanere ancora tanto tempo in tale limbo. Sebbene il Presidente Recep Tayyip Erdoğan, sul finire dello scorso anno, abbia dichiarato a nome del popolo di voler costruire un futuro insieme all’Europa e di non avere problemi con Bruxelles che non possano essere risolti attraverso la politica, la diplomazia e il dialogo, le questioni relative allo stato di diritto e alla stabilità democratica del Paese di Ankara continuano a essere preoccupanti.
I limiti alla libertà di stampa sono tanto forti da risultare a volte invalicabili, il Governo ha l’ultima parola su cosa possa essere pubblicato dai media nazionali, è presente, opprimente, poco propenso a critiche e opinioni e si autolegittima a censurare determinate informazioni per mezzo di leggi atipiche e superficiali, il cui essere ancora in vigore in un Paese presunto del primo mondo ha dell’incredibile. Talvolta a essere censurate sono intere pagine web, Wikipedia è risultata bloccata dal 2017 al 2020, da quando un trafiletto ipotizzante che le istituzioni turche equipaggiassero gruppi terroristici apparve sulla famosa enciclopedia online fino al momento in cui la Corte costituzionale turca definì il blocco una violazione dei diritti umani. Per quanto riguarda la partecipazione democratica, il suo progressivo indebolimento ha raggiunto un punto critico nelle elezioni amministrative di Istanbul del 2019, elezioni che videro il candidato repubblicano Ekrem İmamoğlu sconfiggere Binali Yıldırım, esponente del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), stesso partito di Erdoğan, e già Primo ministro turco, ultimo ad aver ricoperto tale carica prima che venisse accorpata a quella di Presidente con il referendum del 2017. Sebbene la vittoria di İmamoğlu apparisse immediatamente netta, il Governo fece grandi pressioni per dichiarare invalidi certi voti e procedere al riconteggio. Non portando ciò alcuna svolta favorevole, la “vendetta” del Governo è consistita nel privare in modo significativo il sindaco della copertura dei media. Ulteriore spaventoso capitolo è quello che vede come protagonista il sistema giudiziario. Centinaia di condanne avvengono senza che si passi per un equo processo, un giustizialismo che l’Unione non può condividere, specie se a essere presi di mira sono avvocati, difensori dei diritti umani e giornalisti. Caso simbolo è quello dell’avvocatessa Ebru Timtik, morta a seguito di uno sciopero della fame contro la condanna a tredici anni di carcere che si vide assegnare per presunti legami con un gruppo terroristico. Timtik fu appellata come terrorista per tutto il corso del breve processo, pratica che ne ha nettamente falsato il corretto svolgimento.
L’ultimo fattaccio, in ordine di tempo, riguarda il mondo accademico turco. Con un’ulteriore presa di posizione contraria ai più antichi principi democratici, il Presidente Erdoğan ha nominato il politico Melih Bulu, anch’egli di AKP, rettore dell’Università del Bosforo di Istanbul, il più prestigioso ateneo del Paese, scavalcando il principio di autonomia caratterizzante gli istituti scolastici e universitari. Ciò ha scatenato la protesta degli studenti, che hanno riempito le strade prima della metropoli che sorge sul Bosforo, poi di tutti gli altri grandi centri turchi, invocando libertà e democrazia. Poco importa che i cortei fossero organizzati e pacifici, tantomeno che agli studenti si fossero pian piano aggregati professori e semplici cittadini, per Erdoğan si è trattato di, testuali parole, vandali, terroristi e blasfemi, e le proteste sono state represse con la forza. “L’Europa ci guardi”, questa volta, è stato uno slogan dei manifestanti, non del Governo, nuovamente postosi in cattiva luce.
Impossibile chiudere un occhio sull’allertante pressione posta a democrazia e stato di diritto, ma anche provandoci, l’altro continua a vedere situazioni incompatibili con quelli che sono i punti fermi dell’Unione europea. In campo militare, la Turchia è da anni molto presente, interventista in Siria, Libia e negli altri conflitti tra Caucaso e Mediterraneo, se non in prima persona, attraverso un ruolo decisivo nel mercato delle armi. Per la voglia di strafare, il Governo si è trovato pure in contrasto con la NATO, pomo della discordia l’installazione di un sistema di difesa missilistica di fabbricazione russa non accordabile con l’equipaggiamento atlantista. A ciò si aggiunge anche la sfrontatezza con cui la Turchia ha compiuto, in malafede e in violazione del diritto internazionale marittimo, continue trivellazioni nelle acque greche e cipriote. Non sono mancate le sanzioni, sia statunitensi che europee, e con esse un ulteriore passo indietro nel processo verso lo status di Paese membro.
Anche compiendo un ragionamento ottimista ai limiti dell’utopia per cui, nel breve periodo, la Turchia possa colmare le sue lacune su libertà, diritti fondamentali e operato militare, rimane un’importante questione da affrontare perché l’Inno alla Gioia possa risuonare per le strade di Ankara, quella relativa ai capitoli negoziali fissati dall’acquis communautaire. Dei trentatré in elenco, solo quattro possono definirsi completamente allineati, molti altri, tra cui la tutela dell’ambiente, che si sa essere estremamente importante per la Commissione von der Leyen, presentano ancora la necessità di notevoli sforzi.
Poco contano quindi le parole del Presidente Erdoğan sulla presunta anima europea che definisce la Turchia, poco conta pure che il Ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu si sia recentemente recato in visita a Bruxelles proponendo un’agenda positiva sul tema immigrazione, liberalizzazione dei visti e modernizzazione dell’unione doganale e che abbia annunciato la ripresa di quei colloqui esplorativi tra Turchia e Grecia che mancavano da cinque anni, e non può essere una scusa il fatto che certi Stati già membri stiano compiendo violazioni dello stato di diritto; se i dati testimoniano che la Turchia, su scala mondiale, occupa il centocinquantasettesimo posto nell’indice della libertà di stampa e il centoquattresimo nell’indicatore di democrazia di The Economist (situazione che fa di essa un “regime ibrido”), significa che il Paese della Moschea Blu non si sta comportando meglio e che nell’Unione che professa i principi della rivoluzione francese non ci possa essere spazio. Per avere una chance di collaborare e cooperare attivamente sotto la bandiera dell’Unione, la Turchia è obbligata a cambiare passo, ma finché la poltrona presidenziale apparterrà all’antidemocratica ideologia di AKP, la sensazione è che ciò non avverrà.
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