Il 27 dicembre 2020 resterà probabilmente nella memoria collettiva degli Europei come il giorno in cui l’Unione, iniziando a distribuire il vaccino in tutti i Paesi membri, si mostra capace di offrire ai suoi cittadini protezione e unità d’azione contro il virus che, come un nemico, ha colpito duramente la nostra salute e il nostro modo di vivere.
Un’istituzione che garantisce questi “beni comuni” è già uno Stato, sia pur imperfetto. Di fronte a questa enorme crisi globale l’Unione Europea ha reagito prontamente. Malgrado l’handicap di un processo decisionale che non sempre consente di votare a maggioranza, l’UE ha effettuato scelte politiche chiare, dotandosi degli strumenti per fronteggiare sia la pandemia sia la pesantissima recessione economica seguita al lockdown.
Prima il pronto intervento della BCE ha garantito l’acquisto di titoli pubblici dei paesi più colpiti dalla pandemia. Poi la Commissione ha sospeso il “Patto di stabilità e di crescita” per consentire agli Stati di finanziare (a debito) le prime misure a sostegno delle imprese e dei cittadini; poi ancora, ha istituito una “cassa integrazione europea” (SURE) per 100 miliardi di euro.
Ma, soprattutto, la Commissione – sempre più “governo europeo” – ha varato lo scorso maggio il Recovery Plan for Europe, che già nel nome, richiama il Piano Marshall (European Recovery Program), l’iniziativa che consentì all’Europa di risollevarsi dopo la guerra.
Come è noto, il Piano si basa su due strumenti. Il primo è Next Generation EU, cioè investimenti per 750 miliardi volti a finanziare la ripresa e, contemporaneamente, a gestire la trasformazione dell’economia europea, in direzione della transizione energetica e della rivoluzione digitale. Il secondo è rappresentato da un bilancio rafforzato (dall’1 al 2% del PIL europeo) e rinnovato, con l’emissione di titoli europei di debito (unionbond) per finanziare gli investimenti. Sono poi introdotte nuove “risorse proprie” per l’Unione, dalla border carbon tax (per abbassare l’emissione di CO2), alla web tax (sui giganti del web), come pure misure per contrastare i paradisi fiscali e il riciclaggio del denaro.
La “filosofia politica” del Piano è chiara: risollevare l’Europa e cambiarla, orientando il suo sviluppo verso il Green Deal e la rivoluzione digitale, per affrontare alla pari le sfide globali con le altre superpotenze. “Gli stati nazionali non sono più la risposta”, hanno ripetuto in questi mesi sia Angela Merkel, leader del paese più importante dell’UE, sia la stessa Ursula Von der Leyen, espressione del “governo europeo”: due donne che personificano una sorta di trasfigurazione della politica che, da nazionale, sta diventando europea.
Con il Recovery Plan c’è stata, dunque, una forte risposta politica unitaria, che ha consentito di superare la famosa “zoppia di Maastricht” (una moneta senza stato), affiancando all’euro una prima forma di politica economica europea: investimenti basati su risorse comuni, garantiti da un bilancio più forte. Sotto quest’aspetto il Piano è dunque rivoluzionario: segna l’inizio di una capacità fiscale europea, che si aggiunge e funziona in parallelo a quella degli Stati membri. E tutto ciò senza riformare i Trattati: dunque, quest’Unione rafforza la sua natura implicitamente federale, affermando il principio che ci può essere una solidarietà europea se c’è un controllo comune sull’impiego delle risorse, garantito da regole e istituzioni comuni.
Con questa filosofia è stato possibile siglare anche il “compromesso” di fine anno che abbina l’erogazione delle risorse comuni al rispetto dello stato di diritto. Come tutti i compromessi non è pienamente soddisfacente, ma ha consentito di legare le risorse di “Next Gen EU” al rispetto dello stato di diritto, smontando il potere di veto minacciato da Polonia e Ungheria.
Gli obiettivi del Recovery Plan non valgono solo per l’Europa, ma anche per il Mondo, che deve fronteggiare, in modo cooperativo e non conflittuale, sia la questione ambientale sia la rivoluzione tecnologica. Un’Europa leader nella transizione energetica e che contribuisce a scrivere le regole della rivoluzione digitale può far crescere la consapevolezza che è necessario costruire una “sovranità comune” su alcuni beni pubblici globali, al servizio dell’umanità.
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