Già da diversi mesi, la Polonia ha avviato la costruzione di un muro lungo tutto il suo confine con la Bielorussia, per impedire l’ingresso irregolare a migranti mediorientali– soprattutto provenienti da Siria, Yemen, Afghanistan e Iraq. Si prevede che la recinzione metallica sarà lunga 186 chilometri ed equipaggiata con telecamere e rilevatori di movimento. Per il completamento dei lavori, il governo ha prorogato il divieto di ingresso nella cosiddetta “zona rossa”, e cioè proprio la zona di confine con la Bielorussia, fino al 30 giugno 2022, motivando la decisione per ragioni di sicurezza nazionale.
Il muro, di fatto, esiste già: il confine è presidiato da quasi dodicimila tra militari, guardie di frontiera e agenti di polizia, e i migranti si vedono negato l’accesso al territorio dell’Unione europea mediante respingimenti sommari, rimanendo per lunghi periodi al freddo e in precarie condizioni abitative, sanitarie e legali; insomma, si sta consumando una crisi umanitaria. Nel 2021, sono stati migliaia i migranti ritrovatisi al confine e il dato ufficiale indica che sono morte 21 persone. Secondo Osservatorio Diritti, il numero potrebbe essere anche più alto, e si presume che attualmente si trovino ancora quasi duemila persone in questo limbo, una parte di queste in campi profughi improvvisati.
Da più parti, si accusa il governo bielorusso di spingere strumentalmente i migranti ai confini con l’Unione Europea in seguito a diverse azioni sanzionatorie. Per comprendere al meglio le ragioni di questo scontro è necessario fare un passo indietro e tornare all’agosto del 2020, mese in cui si sono tenute le ultime elezioni presidenziali in Bielorussia, che hanno visto la vittoria dell’attuale presidente Lukašėnka, per il sesto mandato consecutivo. Tale nomina, però, è stata ritenuta dall’Unione Europea illegittima poiché antidemocratica, fraudolenta, irregolare e non libera. L’Unione ha altresì condannato gli atti intimidatori e repressivi compiuti dal governo bielorusso nei confronti delle manifestazioni di dissenso pacifico, degli oppositori politici e dei giornalisti. Non riconoscendo i risultati elettorali, è intervenuta con un pacchetto di sanzioni economiche, che poi si è rivelato il primo di una lunga serie.
La controffensiva politica di Lukašėnka si è materializzata sulla pelle dei migranti. Il presidente bielorusso ha, infatti, deciso di cessare la collaborazione con l’UE volta a regolare i flussi migratori. Ha deciso, quindi, di far confluire i profughi verso i confini polacchi, lituani e lettoni, innescando di fatto la crisi corrente. Ai confini degli Stati interessati da questa pressione migratoria, ci sono stati moltissimi respingimenti, abusi fisici, molestie, estorsioni, distruzione di proprietà e chiaramente negazione dell’accesso alla richiesta di asilo. I migranti respinti, fermi al confine tra i due Stati, incontrano spesso difficoltà nel procurarsi beni di prima necessità e sono sovente costretti a nascondersi nei boschi. In questo contesto, persino la solidarietà della società civile viene osteggiata, e le ONG incontrano grandi difficoltà nel fornire assistenza umanitaria.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è già pronunciata più di una volta sulle violazioni poste in essere dalle autorità polacche. In particolare, le violazioni evidenziate riguardano il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti secondo l’articolo 3 CEDU, il divieto di espulsioni collettive e il diritto ad un ricorso effettivo. Inoltre, la Corte ha disposto, in diverse circostanze, delle misure cautelari provvisorie a tutela di alcuni ricorrenti – come la fornitura di vestiti, cibo e acqua, cure mediche adeguate e, possibilmente, una protezione temporanea per il tempo della valutazione delle situazioni personali. Tuttavia,tali misure sono state disattese dalla Polonia, in contrasto con la Convenzione.
Al di fuori dell’azione della Corte, le istituzioni politiche dell’Unione Europea sembrano assumere verso la Polonia una posizione molto diversa rispetto all’aperta condanna rivolta alla Bielorussia. Per quanto riprovevole l’uso strumentale del dramma migratorio da parte di Minsk, altrettanto gravi sono le continue violazioni di diritti umani sul fronte polacco.
Già solo l’idea stessa della costruzione di un muro contrasta con i valori fondanti dell’Unione, come la solidarietà e la tutela dei diritti universali. Di fatto, il muro rappresenterà un impedimento fisico e concreto alla possibilità di godere del diritto d’asilo e di ricevere protezione internazionale. Su quanto sta accadendo, però, nessuna posizione di dura condanna è stata finora espressa pubblicamente nei confronti del governo di Andrzej Duda, che paradossalmente riceve invece il sostegno di alcuni Stati membri.
Al momento, sono state quantomeno respinte le richieste di Varsavia di ottenere fondi per la costruzione del muro. Per il resto, ci sono state solo mere dichiarazioni di solidarietà rivolte ai migranti al confine e deboli azioni in termini di aiuti umanitari. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, insiste: «la strumentalizzazione dei migranti per scopi politici da parte della Bielorussia è inaccettabile». La presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, ha invece invitato la Polonia ad accettare le proposte di aiuto dell’Unione per soccorrere le persone vulnerabili ed evitare una escalation. Non è chiaro, però, se vi sia una prospettiva di più ampio raggio su quale sarà la posizione che l’Unione assumerà nei confronti di questa crisi e, soprattutto, nei confronti della costruzione del muro. Le sanzioni, finora, hanno solo inasprito il conflitto politico con la Bielorussia e lasciato indisturbate le autorità polacche nell’operare in violazione dei diritti umani.
Ad accentuare la drammaticità di questa situazione, l’ipocrisia con cui il governo polacco e l’Unione Europea hanno messo in moto azioni di apertura e accoglienza nei confronti dei cittadini ucraini colpiti dall’invasione russa. Secondo l’UNCHR, infatti, la Polonia ha già ospitato circa un milione e mezzo di persone in fuga dal conflitto. Una tale disparità di trattamento non fa che ledere ulteriormente la dignità di quei migranti non europei che, al contrario, non hanno ricevuto alcun tipo di solidarietà istituzionale e si sono pure visti negare, in alcuni casi, diritti fondamentali di cui sono titolari e di cui l’Unione si dichiara garante.
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