Lo scorso 5 febbraio di 75 anni fa è stato l’anniversario della morte di Leone Ginzburg, torturato a morte dai nazisti a Roma.
Sul muro dell’edificio che ospitava la tipografia clandestina in cui Ginzburg è stato catturato, vi è una lapide che lo ricorda così: “Un agguato poliziesco/ nella tipografia/ de “L’Italia Libera”/ strappava alla lotta clandestina/ Leone Ginzburg/ italiano/ per passioni di risorgimento/ europeo/ di pensiero e di ideali/ era nato ad Odessa/ il IV.IV.MCMIX morì a Regina Coeli/ vittima del terrore nazista/ il V.II.MCMXLIV/ viva la sua memoria/ nel cuore di chi spera e / combatte/ per una giusta libertà."
Stiamo parlando di un grande intellettuale, un partigiano che ha scelto di militare col Partito d’Azione e GL. “Insorgere e risorgere”, motto lussuniano, rappresenta davvero bene questi 35000 combattenti (il 20% del totale) messi in campo nei venti mesi della Resistenza. Le perdite, circa 4500 persone, contarono un numero altissimo di caduti nei quadri medio-alti (tra cui annoveriamo anche Ginzburg): un sacrificio probabilmente dettato non solo dalla scarsa esperienza, ma anche dalla visione della politica di derivazione rosselliana in cui il bisogno dell’azione si sostituisce ad ogni altro impulso, persino alla stessa sopravvivenza. Uno sguardo sul mondo che ha al centro “l’azione assistita dalla ragione e (…) illuminata dalla luce morale”; la libertà intesa “come mezzo e come fine” e “il liberalismo (…) come forza ideale ispiratrice, il socialismo come forza pratica realizzatrice”. Gli ideali di questa “rivoluzione democratica” si fondavano su un forte storicismo che ascendeva al Risorgimento gobettiano “degli eretici” e “senza eroi” per l’applicazione di una linea vissuta come un qualcosa che veniva da un passato lontano, ma comunque di estrema attualità: “la verità della nostra interpretazione della storia – scriveva allora Carlo Levi – è condizionata dalla nostra azione: la legittimità di questa è nella continuazione di una tradizione”.
Vivevano sulla base della guerra, del conflitto al fascismo la convinzione di poter dare all’Italia e all’Europa una nuova rinascita. Un risorgimento collettivo che cancellasse le nefandezze del nazi-fascismo, considerato la fine dell’umanità, per costruire un “mondo nuovo”.
Consapevoli che quella battaglia è ben lungi dall’esser conclusa ancora oggi, in un’Unione europea prigioniera del nazionalismo e dei pericoli di derive autoritarie dell’attuale sistema politico-istituzionale, riportiamo come necessario esempio di memoria storica attiva la vita di queste persone.
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Leone nasce a Odessa il 4 aprile del 1909, da Fëdor Nikolaevič e da Vera Griliches, in una famiglia ebrea laica, ultimo di tre fratelli. Il padre è un industriale; la madre, di Pietroburgo, è attiva in opere sociali e nel campo educativo. Dal punto di vista politico, la famiglia del Ginzburg presenta un ampio arco di posizioni diverse: il padre è un liberale, vicino ai «cadetti», mentre la madre simpatizza per un partito minore della sinistra, quello dei «nazional-socialisti»; il fratello Nicola è socialdemocratico e la sorella Marussa è invece vicina ai socialisti rivoluzionari. Di seguito allo scoppio della Rivoluzione, tutta la famiglia si trasferisce a Torino, dove Ginzburg sostiene la licenza ginnasiale al liceo Massimo d’Azeglio e, per un periodo, a Berlino. In classe spicca per la sua grande cultura e per una certa intransigenza etica di sapore kantiano che lo caratterizzano per tutta la vita. Iscrittosi a giurisprudenza, ha come compagni di corso Bobbio, Foa e Galante Garrone. Conosce anche Pavese, che è iscritto a lettere, tramite lui incontra Garosci e Argan. In questi anni si astiene da ogni attività di opposizione fino all’ottenimento della cittadinanza italiana (1931), da lui chiesta al raggiungimento della maggiore età: la premessa, quasi il prerequisito necessario, della sua azione politica. Il senso di appartenenza alla comunità nazionale italiana si accompagna sempre (fin dagli scritti infantili) a una decisa polemica contro ogni nazionalismo ed a un profondo e radicato europeismo. Nel 1928, conosciuto Croce, decide di trasferirsi a lettere.
Nel 1932, una borsa di studio lo porta a soggiornare nell’aprile-maggio a Parigi. Qui rivede Garosci (che aveva abbandonato l’Italia), frequenta l’ambiente dei fuorusciti, conosce Rosselli e Salvemini. Decide così di entrare nel movimento antifascista clandestino. Quando rientra in Italia, le fila dell’antifascismo torinese sono state da poco scompaginate dalle dure condanne comminate dal tribunale speciale e Ginzburg decide di ricostituirle, avviando una serie di contatti e dando vita, nel corso dell’estate, a un nuovo gruppo torinese di Giustizia e libertà. Ne fanno parte, oltre al Monti, Carlo Levi, Barbara Allason, Mila, Mussa-Ivaldi, il professor Michele Giua e il figlio Renzo. Più tardi si aggiungono anche Foa, Mario Levi, Sion Segre, e vengono presi contatti con Muscetta e Fiore. Fra la fine del 1932 e l’inizio del 1933 Ginzburg cerca di organizzare la fuga di Ernesto Rossi dal carcere di Piacenza, ma il tentativo rimane senza esito, anche a causa del trasferimento del prigioniero ad altro carcere. Intanto, ottiene la libera docenza in letteratura russa, ma quando il regime stabilisce di chiedere il giuramento di fedeltà anche ai liberi docenti, non esita a scegliere la rinuncia definitiva a un’attività accademica che pur gli si prospetta brillante.
Nel 1934 il suo nucleo di GL subisce una sessantina di arresti e lui stesso è incarcerato. Uscito di prigione il 13 marzo 1936, è ormai costretto a condurre una vita da vigilato speciale. Due anni dopo, in seguito alle leggi razziali, viene anche privato della cittadinanza, e condotto allo stato di apolide. Il 12 febbraio del ’38 sposa Natalia, figlia del professor Giuseppe Levi e si impegna nell’attività della casa editrice Einaudi. Nel giugno 1940, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia, viene inviato, come «internato civile di guerra», nel paese di Pizzoli (L’Aquila) come «antifascista pericoloso» ed è sottoposto a un regime di sorvegliato speciale.
Il 26 luglio 1943, caduto il regime, Ginzburg parte per Roma e riprende contatto con il gruppo dirigente del Partito d’azione, incontrando fra gli altri Rossi-Doria, Muscetta, Carandini, La Malfa e Venturi. Con Venturi parte per Torino per riallacciarvi altri contatti, e il 27 agosto è a Milano, dove in casa Rollier, partecipa alla fondazione del Movimento Federalista Europeo. Pochi giorni dopo, fra il 5 e il 7 settembre, partecipa a Firenze a un congresso clandestino del partito, cui sono presenti anche Parri, Lussu, Lombardi, Bauer, Agnoletti e molti degli azionisti che aveva già conosciuto. La stima e la fiducia nei suoi confronti sono tali che, dopo l’8 settembre, gli viene affidata la direzione del giornale clandestino “L’Italia libera”, pubblicato a Roma. Nella capitale, dove ha anche ricevuto l’incarico di dirigere la sede romana della Einaudi, vive sotto il falso nome di Leonida Gianturco.
Il 20 novembre del ’43 è arrestato nella redazione dell’Italia libera e condotto a Regina Coeli. Ai primi di dicembre viene scoperta la sua vera identità ed è trasferito al braccio controllato dai tedeschi. È torturato e colpito a sangue durante gli interrogatori. Sandro Pertini, detenuto insieme con lui, ricorda di averlo incontrato, sanguinante, dopo l’ultimo interrogatorio; e che Ginzburg è riuscito a dirgli «Guai a noi se domani […] nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco. Dobbiamo distinguere tra popolo e nazisti».
Il 4 febbraio si sente molto male; la sera, scrive un’ultima lettera alla moglie Natalia e chiama un infermiere, che però si rifiuta di far venire il medico. La mattina del 5 febbraio viene trovato morto, e solo allora la moglie potrà vederlo.
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Da un punto di vista politico si possono forse indicare quattro nomi come decisivi per la formazione di Ginzburg: Mazzini, Cattaneo, Gobetti e Croce. Mazzini, per il suo fervore nazionale, la visione etica, il richiamo all’azione. Di Cattaneo condivide il federalismo, sia nel senso dell’avversione allo stato centralista, sia in quello della prospettiva degli Stati Uniti d’Europa. Leone è un federalista convinto, fin dagli articoli che pubblica in «Giustizia e Libertà» con lo pseudonimo MS: “In un certo senso, non si aderisce con sincerità a GL senza essere federalisti”, arriva a scrivere nel ‘33. Di Gobetti condivide l’intransigenza etica e politica accompagnata da una grande apertura culturale; la critica dell’Italia prefascista; il già ricordato concetto di autonomia; il liberalismo fondato su basi etiche e capace di guardare a una democrazia sociale. In Croce, con cui intrattiene una ricca corrispondenza, vede l’uomo del Manifesto del 1925. Lo dividono però dal grande filosofo la scelta della cospirazione, il rifiuto del conservatorismo sociale e il senso dell’insufficienza di una «religione della libertà» che non si incarnasse in programmi politici più concreti.
Dopo la morte, numerose sono state le manifestazioni di affetto degli amici superstiti. Lo schietto Ernesto Rossi scrive a Bobbio: “Io ho visto poche volte Leone, ma prima di incontrarmi con lui, me ne avevano parlato spesso Foa, Mila e Monti a Regina Coeli, e i loro discorsi mi avevano già dato un’idea del suo valore (…) dopo la sua morte, ho anch’io una specie di culto per la sua memoria (…). Carlo Rosselli e Leone Ginzburg: due capi che avrebbero potuto dirigere l’azione del nostro piccolo gruppo di “pazzi malinconici” (…). Ma, se ci sono mancati, non è venuta meno la loro influenza sulla nostra azione”. Bobbio stesso lo ricorda più volte con parole commosse: “È morto solo, come se non avesse più nulla da dire. E invece il suo discorso era appena cominciato.”
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Concludiamo con la splendida poesia d’addio della moglie Natalia, scritta in memoria del marito.
Gli uomini vanno e vengono per le strade della città. Comprano cibo e giornali, muovono a imprese diverse. Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene. Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso, ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto. Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto, solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre. E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle che spezzavano il pane e versavano il vino. Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo a guardare il suo viso per l’ultima volta. Se cammini per strada, nessuno ti è accanto, se hai paura, nessuno ti prende la mano. E non è tua la strada, non è tua la città. Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri, degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali. Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra, e guardare in silenzio il giardino nel buio. Allora quando piangevi c’era la sua voce serena; e allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso. Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre; e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.
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