Ventotene e rivoluzione

Un’analisi per rispondere ai tentativi di travisare un messaggio politico

, di Giulio Saputo

Ventotene e rivoluzione

Nessuno avrebbe mai pensato di sentire così tanto parlare i media e l’opinione pubblica italiana di Altiero Spinelli e di Ventotene nel 2025, ma gli ultimi avvenimenti hanno acceso un riflettore su una storia poco conosciuta e, in parte, dimenticata.

Sono vari anni che l’Unione europea e l’Europa sono mediatizzate, ma adesso siamo andati oltre, si discute chiaramente del futuro processo di unificazione europea. Il fatto che gli Stati Uniti di Trump e la Russia di Putin stiano minacciando l’UE, mostrandosi come due imperialismi intenzionati a spartirsi il continente, ha suonato un’amara sveglia anche nel nostro Paese. Insomma, siamo usciti dal tunnel del “come” e abbiamo riaperto il libro dei “perché” esiste il progetto europeo. Sono scomparsi i detrattori dell’Europa e ora tutti si dichiarano europeisti a modo loro. Ma non solo.

Nell’arco di una settimana c’è stata una grande manifestazione di successo immaginata da un editorialista il cui trait d’union era il Manifesto di Ventotene, un lungo spettacolo in prima serata con milioni di telespettatori che delinea la chiara necessità degli Stati Uniti d’Europa e un’ondata mediatica che sta continuando a sommergere la Presidente del Consiglio dopo il suo attacco al Manifesto.

Il pericolo che si ripresenta ogni volta che un’immagine storica viene mediatizzata per adattarla ai bisogni contingenti è però l’interpretazione distorta che rischia di consolidarsi. Non ci riferiamo alle semplificazioni degli “esperti della domenica”, parliamo piuttosto della trasformazione della storia in un simbolo che possa essere narrato e interpretato per dire tutto e il contrario di tutto, perdendone il valore originario.

Per prima cosa, il contenuto del Manifesto per un’Europa libera e unita (o “di Ventotene”) non è utopico, ma un progetto politico da realizzare.

La disputa sui ruoli e sulle competenze delle Istituzioni sovranazionali, così come la struttura istituzionale europea stessa, è un terreno di confronto più attuale che mai. Chiunque voglia fare politica, difendere diritti o interessi, ha capito che il primo campo di battaglia è la riforma dell’assetto istituzionale dell’Unione. Questo è fondamentale: Spinelli e Rossi fanno parte di un conflitto politico in corso, il cui ricordo serve come testimonianza storica attiva e non si può relegare ad una memoria da sbandierare.

Proviamo quindi ad articolare alcuni punti di analisi che aiutino a dare un riferimento alle persone che in questo momento si devono orientare nell’interpretazione del Manifesto e della sua eredità:

1) Il federalismo di Ventotene non era un semplice strumento di ingegneria costituzionale, ma piuttosto una proposta di azione politica concreta a livello sovranazionale per affrontare i problemi più urgenti della civiltà moderna: la guerra totale, la crisi della democrazia sfociata nei totalitarismi, e il disordine economico internazionale che generava disuguaglianze e miseria. L’obiettivo con cui è stato scritto era la salvaguardia della libertà, per cui “l’uomo non deve essere mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita”.

2) Il Manifesto di Ventotene non costituisce la base dell’attuale Unione europea. I federalisti hanno sempre lottato per ottenere di più, ma i loro sforzi hanno prodotto risultati sempre troppo modesti e l’UE che vediamo oggi è il frutto di quelle sconfitte o di quelle vittorie parziali. I federalisti erano, sono e saranno rivoluzionari perché aspirano a trasformare profondamente l’assetto politico esistente, lottando contro il nazionalismo, per creare un nuovo potere democratico in Europa e nel mondo. La realtà però è che i progetti federalisti della Resistenza (che non fiorirono solo a Ventotene, ma in tutta Europa) si rivelarono perdenti nell’immediato dopoguerra, in un continente diviso sotto l’egida delle due superpotenze. È vero che, nella Dichiarazione Schumann, l’obiettivo finale rimase la federazione europea, ma questo fu rimandato a un futuro indefinito e affidato a un approccio funzionalista. Dal punto di vista federalista, l’Unione europea attuale non è quindi l’Europa immaginata a Ventotene, bensì una “figlia ingrata” dei progetti federalisti della Resistenza che, in quanto tali, non hanno ancora avuto piena attuazione e potrebbero invece rappresentare la chiave di volta per ritrovare la speranza in un futuro migliore per gli europei e per un’umanità vittima di questa globalizzazione senza regole.

3) Evitiamo di diluire continuamente gli aspetti antisistema e rivoluzionari del pensiero federalista. Questo è un meccanismo classico. Ad esempio, nel pantheon dei padri fondatori della nostra idea di nazione, il messaggio rivoluzionario di Mazzini è stato progressivamente annacquato e integrato al conservatorismo di Vittorio Emanuele II nonostante le evidenti contraddizioni (ricordiamoci la condanna a morte voluta dal Re sabaudo per il fondatore della Giovine Italia). Allo stesso modo, oggi Spinelli (grazie anche al percorso fatto nelle istituzioni comunitarie) viene accolto spesso tra i padri fondatori dell’Unione europea come un “sognatore” (e il Manifesto diventa un “patrimonio europeo” che tutti celebrano e nessuno legge). Una riconciliazione poco critica e superficiale tra rivoluzione e conservazione dell’esistente rischia di privarci del motore delle idee che guardano al futuro, oltre che legarci ad uno status quo difficilmente giustificabile di un’Europa incompleta e carente. I veri sognatori o utopisti sono tutti coloro che credono di poter mantenere l’assetto esistente o di tornare alle sovranità nazionali, convinti che questo garantisca loro un domani. Spinelli era un realista. Attenzione, dunque, a non costruire un mito distorto per difendere in modo acritico un establishment o un sistema sovranazionale prezioso ma inadeguato ad affrontare il divenire delle crisi che stiamo vivendo.

4) Il Manifesto è antidemocratico? È vero che di fronte alla crisi delle democrazie negli anni Venti e Trenta, un certo pessimismo riguardo allo sviluppo autonomo delle masse popolari emerge dalle riflessioni di Rossi e Spinelli. Tuttavia, questa distinzione tra minoranze organizzate e masse si limitava a riconoscere un diverso livello di consapevolezza, che poteva essere superato attraverso il dialogo e un’opera di educazione e attivazione della volontà popolare. Riconoscere ciò non significava adottare una logica autoritaria, ma affrontare la questione di come preparare le forze democratiche a resistere alla successiva situazione post-bellica. I federalisti puntarono inizialmente sulle potenzialità rivoluzionarie di questa crisi per promuovere la creazione di una costituente europea. In questo contesto vanno interpretati sia l’accento «giacobino» presente nel Manifesto sia l’affermazione sulla necessità di modellare la «lava fluida» della coscienza popolare nella nuova forma europea, prima che fosse nuovamente confinata nei confini degli Stati nazionali. Sono posizioni che gli stessi autori hanno modificato pochi anni dopo. Sul piano biografico, il fatto poi che delle persone disposte a sacrificarsi per la libertà e che per tutta la vita hanno provato ad elevare la democrazia “dal quartiere al mondo” si possano ritenere antidemocratiche è semplicemente assurdo.

5) Il Manifesto non è ultraliberista e ci ricorda che l’unità europea non è un fine in sé, bensì lo strumento per riconquistare la strada verso il pieno sviluppo della civiltà umana e la progressiva unificazione globale. In tal senso, nel capitolo riguardante le riforme sociali, si prefigura un’Europa democratica, solidale e basata sui principi di libertà e giustizia sociale, impegnata ad abolire la miseria. Nulla a che vedere, dunque, con quell’europeismo dominato dai poteri finanziari o con i totalitarismi di cui è accusato. Anzi, è l’esatto contrario: solo in un quadro di governance democratica, a livello europeo e globale, è possibile superare le crescenti disuguaglianze e le nuove forme di sfruttamento. È possibile dibattere sul grado di intervento pubblico, ma l’azione politica, per essere efficace, deve operare allo stesso livello globale in cui agiscono le forze economiche.

6) Il Manifesto non è stalinista. La terza parte del Manifesto è dedicata a un ampio programma di riforme sociali. Questo programma fu concepito da Ernesto Rossi, allievo di Einaudi ed erede della tradizione di Salvemini, che immaginava una forma originale di welfare e prefigurava un’economia di mercato al servizio dell’uomo. In questa visione, l’iniziativa privata non sarebbe stata soffocata dalla collettivizzazione generale, ma «agganciata al carro sociale», ovvero guidata dal potere pubblico verso il benessere collettivo all’interno di un quadro istituzionale europeo. Come già fatto da altri, basti confrontare il contenuto del Manifesto con l’Art. 42 della nostra Costituzione.

Manifesto di Ventotene: “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione dal giogo capitalista; ma, una volta realizzata in pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia. […] La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.”

Costituzione italiana: Art. 42 - “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.”

Proviamo a riepilogare tre degli aspetti più interessanti del Manifesto di Ventotene:

  • Al centro del Manifesto emerge l’analisi dell’incompatibilità tra la struttura dello Stato nazionale con lo sviluppo economico e l’equilibrio internazionale. La Rivoluzione industriale crea una prima contraddizione: da una parte, le relazioni economiche si espandono progressivamente a livello globale, mentre dall’altra, la dimensione politica resta confinata entro i limiti nazionali. La divisione del continente europeo in Stati sovrani ostacola la ricerca di nuovi mercati, accentuando le tensioni e la competizione per lo sviluppo oltre le proprie frontiere. Parallelamente a questo, la Rivoluzione francese pone l’ideologia nazionale al servizio dello Stato come strumento nelle lotte per l’egemonia globale. Da un lato, la costruzione dello Stato moderno ha favorito un processo di civilizzazione, grazie al monopolio legittimo dell’uso della forza e alla certezza del diritto; dall’altro, gli Stati hanno mantenuto rapporti basati su una sovranità esclusiva, generando così una condizione di anarchia a livello internazionale. Mentre all’interno dei confini nazionali si promuove lo sviluppo della democrazia e delle grandi ideologie, all’esterno, in assenza di un ordinamento giuridico, i rapporti si basano sulla politica di potenza, rimanendo ancorati allo stato di natura e alla legge del più forte. Queste chiavi di lettura possono spiegare l’origine dell’imperialismo e delle guerre mondiali, la trasformazione degli stati nazionali in totalitarismi, il deterioramento dei principi di civiltà e il fallimento delle ideologie internazionaliste.
  • Il punto cruciale è che, sebbene Spinelli e Rossi traggano le loro lenti da altre interpretazioni citate in passato, essi non collocano la soluzione della federazione europea in un futuro ideale, bensì definiscono una strategia concreta per rendere realizzabile il progetto: “Con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami fra i singoli movimenti che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre sin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un saldo Stato federale”.
  • Un ulteriore elemento essenziale del Manifesto è l’evidenziazione di ciò che accomuna i pensatori nazionalisti, liberali, democratici e socialisti: ovvero l’idea che sia prioritario migliorare il proprio stato nazionale, con la convinzione che la pace derivi automaticamente dall’affermazione dei principi fondamentali delle loro ideologie. La prospettiva federalista, invece, ribalta questo concetto: “Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani”. Da tale premessa, Spinelli e Rossi traggono una nuova classificazione delle forze politiche, che supera la tradizionale dicotomia “destra-sinistra” tracciandone invece una divisione orizzontale. Così, tutti coloro che riconoscono l’importanza centrale della lotta sul piano internazionale saranno considerati “progressisti”, mentre chi, invece, mantiene la priorità alla dimensione nazionale verrà etichettato come conservatore e “reazionario”: “La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta, quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale (...) e coloro che vedono come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, indirizzando le forze popolari verso questo scopo e, anche una volta conquistato il potere nazionale, utilizzandolo in prima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”.

In conclusione, occorre condannare l’assurdo tentativo di delegittimare quello che è stato un documento politico fondamentale della Resistenza europea. Ancora oggi, leggere il Manifesto di Ventotene ci permette di cogliere la differenza tra l’ottica nazionalista, che preserva intatto il dogma della sovranità assoluta, e una Federazione democratica che prevede il trasferimento all’Unione europea di competenze essenziali (quali politica estera, difesa, moneta) necessarie per mantenere l’unità e gestire gli interessi comuni, lasciando agli Stati membri autonomia in tutte le altre materie.

Per amministrare queste competenze, uno Stato federale si doterebbe di Istituzioni democratiche con una giurisdizione diretta, anche fiscale, sui cittadini della federazione, secondo una divisione di competenze sancita dalla Costituzione. Una chiara comprensione di questa differenza ci fornisce un riferimento per capire a che punto siamo nel processo di unificazione europea e in quale direzione dobbiamo procedere.

Solo attraverso una lettura critica del testo si possono affrontare alcune questioni che sono ancora attuali: la crisi di civiltà e dello stato di diritto anche all’interno dei confini europei; la debolezza della democrazia davanti all’emergere di nuovi populismi e nazionalismi in un mondo segnato da conflitti sempre più devastanti; la necessità di concepire nuove forme di cittadinanza in società interculturali in cui la mobilità è la caratteristica predominante; l’urgenza di costruire uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale, immaginando nuove forme di welfare e intervento pubblico per fronteggiare le profonde trasformazioni economiche e sociali imposte dal “capitalismo della sorveglianza”.

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