Breve percorso nella diplomazia culturale

Il potere della cultura, o come la bellezza diviene strumento

, di Silvia Ciaboco

Il potere della cultura, o come la bellezza diviene strumento

Non solo hard power nelle relazioni tra Stati, ma anche cultura. Sebbene il concetto di diplomazia culturale non costituisca una novità e, anzi, la sua centralità all’interno delle complesse dinamiche internazionali abbia conosciuto la sua massima espressione nel corso della Guerra Fredda, oggi sempre più frequentemente il ruolo della cultura viene indagato e riaffermato, da accademici e politici, quale fondamentale strumento di soft power. Nel 2016, l’Unione Europea, che per definizione consiste in un inestricabile patchwork di identità e culture, ha mosso significativi passi verso un esercizio più deciso della diplomazia culturale, così come emerso in occasione di una importante Comunicazione congiunta al Parlamento europeo e al Consiglio intitolata “Towards a EU strategy for International Cultural Relations”.

Innanzitutto, è bene partire da alcuni elementi definitori. Il concetto di diplomazia culturale è difatti molto ampio e si presta a molteplici interpretazioni, nonché applicazioni. La ragione di ciò è in buona parte da rintracciare nella complessità insita nel concetto stesso di cultura, laddove con quest’ultima si intende l’insieme di valori, credenze, abitudini, sistemi giuridici, espressioni artistiche e qualsiasi altra manifestazione tale da definire l’identità di uno specifico gruppo. Una sintesi funzionale di tale concetto è offerta da Raymond Williams, Professore di Scienze Politiche considerato il “padre” degli Studi Culturali: in merito a ciò, egli afferma che “la cultura è il sistema significante attraverso il quale un ordine sociale viene comunicato, riprodotto, sperimentato ed esplorato”. [1] In politica, tuttavia, non essendo la cultura considerata solo in termini di mera produzione e trasmissione di oggetti simbolici, la stessa presuppone un valore e uso strumentale intrinsecamente connesso con l’esercizio del potere. Ed ecco, dunque, che in diplomazia la cultura è eminentemente uno strumento delle relazioni internazionali, esercitabile sia a livello bilaterale che multilaterale, tale da incidere sull’impatto di uno Stato nella scena mondiale, permettendo infatti l’affermazione della sua identità e influenza, così come l’apertura di nuovi fori di dialogo suscettibili di sviluppare molteplici relazioni.

Va da sé che l’esercizio della diplomazia culturale rientra necessariamente nella categoria del soft power, efficacemente definibile come la capacità di ottenere ciò che si vuole attraverso l’attrazione piuttosto che ricorrendo alla coercizione: esso sorge dall’attrattiva della cultura, dei valori politici, degli ideali e delle politiche di un Paese. [2] Pertanto, la diplomazia culturale consiste nell’esercizio di un’attività governativa finalizzata a proiettare un’immagine favorevole del proprio Paese nel resto del mondo attraverso l’internazionalizzazione della sua vita culturale, permettendo in tal modo lo sviluppo di alleanze e l’esercizio della propria influenza.

Si è detto che non si tratta di un fenomeno nuovo e, anzi, tra gli studiosi vi è chi ne afferma la tracciabilità già a partire dai Grandi Imperi dell’antichità. Muovendo però i passi verso tempi più recenti non si può in tale contesto non guardare agli Stati Uniti, laddove l’esercizio della diplomazia culturale è ben noto a tutti se collocato nel contesto della Guerra Fredda del secolo scorso. In particolare, guardando al versante opposto dell’Atlantico, emerge come il valore della cultura, in quanto strumento di proiezione internazionale della nazione, fosse ben chiaro fin dagli albori della repubblica americana. In una lettera del 1785, Thomas Jefferson affermava come il suo entusiasmo per le arti avesse lo scopo di migliorare il gusto dei suoi connazionali così da “increase their reputation, reconcile to them the respect of the world, and procure them its praise”. Tale affermazione è ancora di grande attualità.

Volendo considerare modelli di successo, soprattutto in un’ottica di proiezione futura del panorama europeo, non si può quindi prescindere da quanto avvenuto durante la Guerra Fredda, un contesto quest’ultimo nel quale gli Stati Uniti hanno imbrigliato il potere della cultura come arma furtiva contro il nemico di allora, l’Unione Sovietica e la relativa ideologia. Ciò che avvenne fu una diffusione senza precedenti delle espressioni creative e delle correnti di pensiero americane in tutto il mondo, azione esercitata attraverso il Dipartimento di Stato e altre agenzie federali, tra cui la CIA. I programmi culturali furono numerosi e tutti brillantemente adattati ai rispettivi obiettivi. Solo per citarne qualcuno, in questa sottile operazione di comunicazione del valore della libertà dell’occidente ha giocato un ruolo fondamentale la musica, in particolare il jazz e il rock’n’roll. La musica occidentale è così penetrata nella cortina di ferro grazie, in particolare, alla programmazione notturna di Music USA: condotto dal 1955 al 1996 da Willis Conover, che ha rappresentato per gran parte del mondo la “voice of America”, il canale radio dedito alla trasmissione di musica principalmente jazz riscosse un enorme successo, specialmente in Europa orientale, Unione Sovietica e Asia. Così come il jazz, anche il rock’n’roll, sebbene fosse più un fenomeno di lingua inglese, ha permesso alle persone che vivevano sotto regimi repressivi di vivere momenti di libertà durante l’ascolto, contribuendo specialmente a saldare un legame unificante tra i giovani di tutto il mondo. Fino alla caduta dell’Unione Sovietica, sia soggetti privati che pubblici hanno contribuito alla definizione dell’immagine degli Stati Uniti all’estero: tour di musica jazz furono così organizzati dal Dipartimento di Stato, mostre ed esibizioni di arte moderna fecero il giro dei diversi musei, e ancora pellicole cinematografiche furono distribuite ovunque in Europa. Attraverso le diverse forme espressive si proiettava così l’immagine degli Stati Uniti quale Paese di libertà, opportunità e tolleranza. [3]

La diplomazia culturale esercitata nel corso della Guerra Fredda contiene preziosi insegnamenti anche per le sfide odierne. Difatti, l’azione americana fu volta non solo alla trasmissione esterna dei propri tratti culturali, ma anche al riconoscimento dei grandi letterati russi del passato, nonché dei dissidenti di allora, permettendo in tal modo a Washington di guadagnarsi importanti alleati nella società sovietica e, tramite gli stessi, comunicare con il popolo sovietico. Tutto ciò è stato reso possibile proprio grazie a quanti, tra i politici e diplomatici americani, avevano compreso, in quel particolare frangente storico, l’importanza dell’espressione culturale nazionale in un’ottica, però, di rispetto delle conquiste letterarie e artistiche del mondo russo.

Venendo ora alla realtà odierna, ma soprattutto all’Europa, la cultura rappresenta inevitabilmente il tessuto vitale dell’Unione europea, la cui azione di proiezione esterna non può dunque prescindere da un esercizio efficace di diplomazia culturale. Quest’ultima espressione, in realtà, è sostituita in seno alle istituzioni europee dalla più ampia formula “International Cultural Relations”, al fine di assicurare un approccio onnicomprensivo alla materia in un contesto tale per cui la diversità culturale costituisce uno dei valori fondanti dell’intera struttura politica. L’UE, come attore globale, svolge dunque un importante ruolo di promozione della diversità culturale, sia tra gli Stati membri sia rispetto ai Paesi terzi. Fermo restando il fondamentale contributo derivante dall’azione diretta condotta dall’European External Action Services, il servizio diplomatico dell’UE, di grande importanza in termini di definizione delle relazioni culturali internazionali è, senza dubbio, la Comunicazione congiunta al Parlamento e al Consiglio dell’8 giugno 2016, tramite la quale la Commissione definisce un particolare tracciato lungo il quale dispiegare la strategia culturale dell’UE. A tale proposito, il documento propone essenzialmente tre fondamentali pilastri: il primo è rappresentato dai principi guida dell’azione europea, laddove figurano la promozione della diversità culturale e il rafforzamento del dialogo interculturale; il secondo pilastro mira a far progredire la cooperazione culturale con i Paesi partner, sostenendo la cultura quale motore per uno sviluppo economico sostenibile, nonché come strumento di costruzione della pace; infine, il terzo pilastro prevede un approccio generale che tiene conto di molteplici progetti come lo stabilimento di European Culture Houses e gli scambi interculturali di studenti e ricercatori. Tra i diversi strumenti europei, particolarmente noto è il programma per la Capitale Europea della Cultura che, nel 2019, ha visto proprio il diretto coinvolgimento italiano grazie all’assegnazione del titolo all’antica città di Matera congiuntamente alla città bulgara di Plovdid.

Secondo una prospettiva di eminente proiezione esterna rispetto ai confini dell’UE, tenendo altresì conto della realtà geografica più prossima, centrale è la strategia volta al rafforzamento della cooperazione in materia di patrimonio culturale. Quest’ultimo, costituendo una delle più importanti manifestazioni della diversità culturale, è destinato ad un particolare programma di protezione e tutela che permette, oltreché la salvaguardia della memoria collettiva, lo sviluppo del turismo e la susseguente crescita economica. Pur essendo fondamentale nell’esaltazione delle diverse culture, il patrimonio culturale mondiale è tuttavia fortemente esposto all’impoverimento e alla distruzione. Le minacce sono molteplici, dalle calamità naturali alle azioni perpetrate consapevolmente dall’uomo: se ciò è valido ovunque nel mondo, laddove vi sono guerre e saccheggi, talvolta motivati anche dall’odio settario, l’esposizione è tanto più maggiore e sfocia di frequente in attività volte al commercio illegale di beni culturali e reperti archeologici. In tale contesto, è possibile dunque inserire le misure che l’UE ha adottato nei confronti della Siria, recependo peraltro le sanzioni previste, in seno alle Nazioni Unite, contro Daesh e Al-Qaeda per l’Iraq.

Nell’ambito del progressivo sviluppo dell’azione culturale nelle relazioni tra Stati, peraltro rafforzata dalla sinergia tra diversi soggetti ed enti, primo tra tutti l’UNESCO, è interessante notare come, parimenti ad altri ambiti delle relazioni internazionali, si registra un ruolo crescente degli attori non statali. Pur rimanendo centrale la strategia governativa, la presenza e influenza di enti non statali nello scenario diplomatico si fa via via più consistente e, difatti, vi è un’istituzione culturale che, più di altre, sta acquisendo importanza come piattaforma ideale della diplomazia culturale: i musei. Il confronto tra il loro ruolo attuale rispetto a quello passato, nemmeno troppo remoto, è interessante. Un tempo depositari delle azioni di hard power, i musei salvaguardavano il bottino di guerra riflettendo l’egemonia dello Stato, salvo poi divenire in tempi più recenti dei facilitatori per la creazione di “safe zones” tra i Paesi. Ciò è tanto più vero in quei casi in cui, all’aumentare delle tensioni politiche, essi rappresentano non di rado una delle poche strade percorribili rimaste per le relazioni diplomatiche. Così è stato nel 2005, quando il British Museum ha ospitato una mostra, “Forgotten Empire: The World of Ancient Persia”, comprendente opere d’arte date in prestito da due musei iraniani, e ciò avvenne in un dei momenti di maggiore tensione della politica internazionale rispetto al programma nucleare di Teheran. Negli ultimi quarant’anni il trasferimento dei musei dalle agenzie di governo alle istituzioni della società civile ha portato ad un significativo aumento del loro peso nell’ambito delle strategie di soft power, le quali risultano peraltro essere più efficaci proprio in quei casi in cui la fonte è indipendente da quella dei governi, la cui comunicazione troppo spesso è percepita come meramente propagandistica. A seguito di questo nuovo posto acquisito nella società civile, i musei hanno oggi un rinnovato ruolo nelle strategie di diplomazia culturale, tale da riposizionare città e regioni sulla mappa globale come destinazioni turistiche, generando al contempo posti di lavoro ed elevando l’identità territoriale del luogo, nonché il suo capitale sociale.

A conclusione di questo brevissimo excursus nel tema della diplomazia culturale, è bene evidenziare il significativo cambiamento avvenuto nel panorama culturale globale, caratterizzato oggigiorno da una domanda di scambi e di cooperazione interculturale sempre crescente, alimentata peraltro dalla rivoluzione digitale. Le sfide nel mondo sono numerose e complesse, ciononostante il potenziale insito nella cultura non deve in alcun modo essere trascurato poiché le arti, se correttamente valorizzate, possono concorrere al rafforzamento delle società e al miglioramento delle relazioni internazionali. Ciascun europeo dovrebbe avere piena consapevolezza del patrimonio culturale e delle forze creative che intessono il cosiddetto Vecchio Continente, che ancora oggi è considerato ovunque nel mondo come un continente ricco e intriso di valori, bellezza e cultura. Alla luce di ciò, la proiezione dell’UE nel mondo non può che muoversi, tra le altre, lungo la direttrice impressa dalla diplomazia culturale, il che permetterà di sviluppare ulteriori canali di dialogo tra i diversi popoli e le relative culture, in un’ottica peraltro di maggiore emersione della propria autonomia e, dunque, influenza. Lo scambio di opinioni e il dialogo interculturale sono elementi necessari del lungo, talvolta impervio, percorso di (ri)avvicinamento diplomatico tra Stati, il che favorisce però, più di qualsiasi altro mezzo, lo sviluppo socioeconomico dei Paesi, prerequisito essenziale per un bene ancora più grande: la pace.

Note

[1Williams R., Culture and Society, New York, 1963.

[2Nye J., Soft Power: The Means to Success in the World Politics, New York, 2004.

[3Melissen J., The New Public Diplomacy. Soft Power in International Relations, New York, 2005.

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