L’ingegno umano è, premessa importante, responsabile degli scompensi climatici, la crisi, che viviamo oggi. La transizione dal modello pre-industriale a quello industriale nel corso del XIX secolo ha anticipato l’impatto antropocenico che, come specie, abbiamo realizzato sul pianeta. È stato un naturale correre in avanti, per una specie naturalmente curiosa e attiva nel sorpassare le crisi che si è andata via via trovando – come dominare il fuoco, come trasportare le merci, come dirigere il vento – grazie alle applicazioni creative delle forze basiche di chimica e fisica, citandone due, per realizzare cambiamenti. Come una grande valanga storica che attraversa i millenni, cambiamento dopo cambiamento si sono andati sommando, e anche andati a pesare, sulla condizione naturale. Per l’ONU, ad esempio, la quantità di CO2 nel 2022 dispersa a causa dei livelli critici di qualità dell’ambiente naturale predisposto a questa necessaria funzione, è arrivata a livelli critici. A sua volta, questa condizione di disagio climatico ha spinto a rinnovate riflessioni a livello di policy, così come a nuove azioni anche bottom-up di protesta, per esempio nella forma di Ultima Generazione, le azioni condotte al Senato della Repubblica italiana o nei musei.
Come si affronta una crisi che sembra impossibile da superare, nel momento in cui sembra non solo colpire il pianeta nel suo intero, ma che al contempo sembra sfuggire alle classiche logiche di azione nazionali che pur hanno caratterizzato il mondo nel suo XIX e XX secolo - e anche un po’ nel XXI?
La risposta, seppur apparentemente banale, potrebbe nascondersi nel progresso scientifico, ma non nel progresso teso al profitto a cui il XXI secolo ci ha abituato, con i grandi marchi capaci di accaparrarsi le novità scientifiche più in voga e forzarle come prodotti. Riprendendo quello che la Mazzucato ha elegantemente spiegato nei suoi lavori, è il progresso scientifico come ricerca di base sponsorizzato dai governi che diviene poi fondamentale tessera nel puzzle del cambiamento e dell’aggiornamento, dell’attraversare le nuove sfide e modificare le traiettorie apparentemente inamovibili del futuro.
La ricerca di base, quella che ha portato a invenzioni come il GPS - prima che Apple lo dispiegasse all’interno dei suoi cellulari [1] - o il touchscreen, è ancora oggi la soluzione più immediata per le sfide ambientali, economiche e sociali che ci ritroviamo all’orizzonte. Lo sono, nel momento in cui rimangono saldamente nelle mani degli attori statali e vengono, a cascata, rese disponibili agli attori anche privati - intermediari ideali per la loro diffusione. Ma perché la ricerca avvenga, ha bisogno dei suoi spazi d’azione.
Le università, per esempio, che formano tanto i professionisti che i futuri ricercatori, diventano lo spazio dell’innovazione che prende piega e forma grazie alla compresenza di entità diverse in un medesimo spazio che offre la possibilità, generalmente, per generare innovazione e novità. A cascata, i laboratori di ricerca pubblici e privati, ma anche enti come le fondazioni, creano spazi di cooperazione e di produzione di conoscenza che diventano essenziali [2]. Perchè, bisogna specificare, non intendiamo qui la produzione di scienza come un elemento unico delle materie STEM (le cosiddetta materie scientifiche-matematiche), ma l’innovazione viene anche da quel mondo fatto di filosofia, storia, sociologia, anche letteratura o psicologia [3]. L’innovazione di nuove forme di policy e di governance dei fenomeni urbani, ad esempio, è un elemento essenziale nello gestire le sfide migratorie che prendono piede nelle città e i fenomeni di differenziazione dello spazio urbano che molte capitali europee, per esempio, vanno vivendo.
Un altro elemento essenziale per lo sviluppo della scienza e l’innovazione prende piede e forma in quelle che definiamo infrastrutture di ricerca. Esattamente come le infrastrutture fisiche sostengono le attività umane quotidiane, come le autostrade che possono migliorare la viabilità di una città e incentivare lo sviluppo industriale di una data area; così, le infrastrutture di ricerca diventano elementi cardine per il sostegno dello sviluppo tecnologico e, di pari passo, diventano essenziali nel migliorare la capacità degli stati di reagire agli sviluppi e alle sfide future.
Se c’è un attore che ha particolarmente investito in nuove infrastrutture di ricerca, questa è l’Unione Europea, andando come spesso ad approfittare di una mancanza degli attori nazionali. L’European Research Area (ERA) nasce dalla rinnovata esigenza di una formazione scientifica innovativa e che sia produttrice allo stesso tempo, attiva e capace di reagire rapidamente alle esigenze sempre diverse del pianeta e dell’Europa stessa. Dentro l’ERA, trova spazio l’iniziativa dell’ESFRI - l’European Strategic Forum On Research Infrastructures. ESFRI è un tentativo, in corso d’opera ma che ha già fatto i suoi frutti in parte, di creare delle nuove, inaspettate sinergie tra gli attori della ricerca europea, colmando il vuoto lasciato dalla mancanza di interventi pubblici massivi in tal senso. Entità come il CERN [4] - che viene riconosciuto come un esempio di infrastruttura che è stata capace di promuovere e raggiungere eccellenti risultati nella ricerca scientifica delle materie STEM, al punto da diventare esemplare anche dal punto di vista del lavoro di analisti come Massimo Florio per come valutare tali infrastrutture.
Al di là dei dettagli scientifici e tecnici delle singole infrastrutture, quello che ci interessa nella realtà è il tentativo fatto su scala europea. La Roadmap del 2021 di ESFRI ci dà diverse indicazioni sulle cose che stanno venendo ad oggi sviluppate e che, ovviamente, rappresentano le direttive principali di futuro sviluppo tecnologico in Europa. Progetti come IFMIF-DONES (International Fusion Materials Irradiation facility - DEMO Oriented NEutron Source) rappresentano ad esempio la tendenza europea verso uno sviluppo tecnologico-energetico che possa diventare davvero radicale per la creazione di un sistema produttivo sostenibile reale.
Non è DONES l’unico progetto che tende a confluire nel macro-concetto di fusione nucleare, ad esempio, e chiaramente non è questo l’unico interesse di ESFRI nella sua complessità. Al contrario, i progetti di questo network volano da nuovi telescopi solari fino a progetti nelle Scienze Sociali e Umane per lo sviluppo di nuove competenze, la digitalizzazione delle opere d’arte o la cooperazione in ambito di centri di ricerca e università. Progetti come OPERAS e DARIAH mirano a fornire alle istituzioni operanti nel campo delle Scienze Sociali e non solo, in maniera più efficiente, ma soprattutto, più interconnessa.
La parola chiave è proprio questa, l’interconnessione tra i diversi attori che operano in diverse nazioni europee e i cui compiti e ruoli si vanno spesso interpolando. ESFRI crea ponti tra queste istituzioni, dando vita a nuovi network che permettono da un lato la collaborazione tra enti anche di uno stesso paese che non avrebbero mai avuto occasione di farlo, e lo realizza anche a livello di cooperazione internazionale intra-europeo. I consorzi tipo ERIC richiedono, ad esempio, espressamente la presenza di stakeholder che appartengono a nazioni europee diverse.
La scienza, in questo caso, diventa un motore su più piani. Economicamente, permette alle singole azioni europee di partecipare in costosi progetti - che in parte finanziano autonomamente - ma che al contempo attirano investitori sotto forma di compagnie e altri enti. Allo stesso tempo, i progetti ESFRI diventano, almeno apparentemente, motori capaci di sviluppare nuove tecnologie e sinergie istituzionali che tendono a riflettersi anche al di fuori dell’ambito della specifica infrastruttura [5].
Per un mondo, quello scientifico, continuamente a corto di fondi e opportunità, lo sviluppo di nuove infrastrutture è una base solida su cui poter costruire, in un ambiente sempre più complesso, nuove opportunità. In un ambiente ipercompetitivo come quello scientifico - dove nazioni come la Cina e gli Stati Uniti muovono investimenti miliardari per mantenere il proprio vantaggio rispetto gli avversari -, la creazione di infrastrutture che siano capaci di abbattere a lungo termine i costi della ricerca stessa, creando un ambiente stimolante e al contempo che permanga nel tempo, ampliando le opportunità di future collaborazione.
Perché tutto questo è un grande vantaggio per l’Unione Europea? Non solo per l’idea che insieme sia possibile produrre scienza che a sua volta potrà dar vita a brevetti - almeno nelle materie STEM -, o che darà vita invece a forme e strumenti che diventino utile. No, il grande vantaggio per l’Unione Europea si cela nel creare un nuovo ambiente che sia capace di incentivare alla cooperazione e soprattutto, che sposti su un piano non esclusivamente nazionale risorse che sono più che mai essenziali, oggi come non mai.
La sfida climatica certamente trova nella rivoluzione scientifica un alleato. La transizione a un sistema più sostenibile sarebbe impossibile senza l’ausilio di quelle tecnologie, che in parte sono accusate di essere le stesse che sostengono lo sviluppo estremo che ha posto sotto stress il pianeta stesso.
Ma, senza scendere nei dettagli tecnici dei singoli progetti e i possibili vantaggi specifici di ognuno di essi, quello che più colpisce del nuovo approccio verso le infrastrutture, sufficienti, è l’idea di valutare, costantemente, cercando di ottimizzare in maniera più efficiente possibile i fondi a disposizione. L’Unione Europea - non unico tra i tanti stakeholder che si sono voltati con maggiore interesse alla valutazione delle proprie operazioni - ha posto un occhio vigile sulle attività di ESFRI, spingendo moltissimo sulla valutazione delle operazioni, con team indipendenti, dipendenti, valutazioni esterne, continui monitoraggi della ricerca condotta e dei possibili effetti.
Da un certo punto di vista, sembra la miglior risposta possibile a chi spesso accusa le istituzioni europee di essere uno spreco di denaro, dispendiose e poco capaci di gestire le risorse che le singole nazioni spendono.
Al contempo, da un punto di vista prettamente scientifico, si potrebbe obiettare un certo eccesso di controllo da parte dell’attore politico della creazione di infrastrutture che dovrebbero tendere verso la ricerca di base - quella che i privati, pur godendo dei suoi effetti, non compiono. Ricerca che pur puntando alle stelle, a volte può produrre vincenti risultati anche fallendo. Nella retorica contemporanea, c’è poco spazio per questi fallimenti - vissuti come uno spreco più che come opportunità di crescita.
La battaglia, comune, contro il cambiamento climatico - il contenimento dei suoi errori e lo sviluppo di un modello decisamente più sostenibile rispetto al passato - passa anche per lo sviluppo di infrastrutture europee capaci di mettere in campo le risorse.
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